Tutti dicono sì al piano di Trump per Gaza, ma si aspetta la risposta di Hamas. Il progetto, però, è troppo vago per dire che si arriverà alla pace
Hamas, spinta da Qatar e Turchia, potrebbe anche dire sì (ma è tutto da vedere) al piano di Trump per Gaza, anche se un movimento nato per la resistenza fa molta fatica a prendere in considerazione l’idea di un disarmo. Il problema, però, spiega Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, è che questo piano è troppo indeterminato, talmente vago che anche se fosse accettato, prima di dire che aiuterà a risolvere i problemi della Striscia e della Palestina ce ne vuole.
I Paesi arabi, quelli europei, persino la Cina lo sostengono, ma non è chiaro come mai ci sia una convergenza così ampia dei consensi su un progetto nel quale il popolo palestinese e le sue sofferenze non sembrano neanche prese in considerazione. E che non si capisce bene dove voglia andare a parare. Intanto Hamas sembra voglia modifiche sui temi del disarmo, sul trasferimento all’estero dei suoi capi e sul ritiro dell’esercito israeliano.
Tutti attendono la decisione di Hamas sul piano di Trump, ma chi decide nell’organizzazione palestinese? C’è ancora un leader o una struttura in grado di dare la linea?
L’ala politica di Hamas, che è all’estero, non si sa più da chi è composta: sono emerse due figure, Ghazi Hamad e Tahrer Al-Nunu, rimasti incolumi nell’attacco del 9 settembre a Doha, ma Khalil al-Hayya, il capo negoziatore, e la leadership collettiva che si era formata dopo l’uccisione di Yahaya Sinwar dove sono? C’è da chiedersi, insomma, quanti ne sono rimasti in grado di esaminare il piano Trump. Se Hamas dice che sono in vita non dissimula, ma bisogna vedere in quali condizioni di salute sono.
Chi all’interno di Hamas potrebbe opporsi alla proposta USA per Gaza?
Bisognerà vedere come reagiranno le brigate Ezzedin al-Qassam, se accetteranno il disarmo. C’è una questione, anche ideologica, fondamentale da porsi: la resistenza fa parte dell’acronimo Hamas, che significa “movimento di resistenza islamico”.
Accettare il disarmo, quindi, vorrebbe dire: “Abbiamo scherzato, non resistiamo più”. Si va al cuore dell’organizzazione: per questo è difficile immaginare che Hamas accetti questa parte dell’accordo, non tanto l’esilio o l’amnistia. Su quest’ultimo punto, tra l’altro, non si capisce bene come si procederà: chi la dovrebbe dare l’amnistia? Trump oppure Israele, cioè una delle due parti in conflitto? C’è veramente tanto che non torna in questo piano.
Cosa in particolare non convince?
Trump, complice del genocidio che Israele sta compiendo a Gaza, si è presentato con il protagonista del genocidio stesso, il primo ministro israeliano, ponendo le condizioni dell’accordo. La domanda vera poi, è perché una buona parte del mondo sostiene un piano che è preparato da questi protagonisti.
Perché in questa occasione sono saltati tutti sul carro? Parlo della Cina, dell’India, ma anche del gruppo di “volenterosi” in versione mediorientale, che comprende Pakistan e Indonesia, cioè i più importanti e popolosi Paesi a maggioranza islamica, la Turchia, l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati Arabi, Giordania ed Egitto, cioè i due Paesi che hanno già degli accordi di pace con Israele.
Cosa stona nel piano?

Non c’è una riga in cui si parla delle sofferenze della popolazione palestinese, delle vittime. Si parla di ricostruzione, di benessere, di opportunità, ma del massacro che è stato realizzato no. Questo di per sé renderebbe questo piano totalmente privo di senso. Eppure, appunto, sul carro saltano tutti, compreso Guterres.
È come se ci fosse qualcosa dietro le quinte che non riusciamo a capire. Forse si pensa che la situazione umanitaria sia arrivata a un punto tale che non sia più possibile aspettare, si teme che Israele non si fermi e pensi addirittura di andare oltre: ricordiamoci che è l’unica potenza nucleare nel Medio Oriente. E poi c’è un altro elemento di cui tenere conto.
Quale?
C’è da considerare il dissenso, quasi la ribellione pacifica delle opinioni pubbliche, che ha portato anche a realizzare una flottiglia di 500 persone in cui sono rappresentati 44 Paesi. Da una parte ci sono i decisori che hanno il potere e dall’altra chi è senza potere ma dice loro che non stanno facendo nulla. Questo preoccupa non solo le democrazie, ma soprattutto le autocrazie. Credo che ci sia stata un’accelerazione dei tempi per trovare una soluzione in modo da evitare che l’opinione pubblica scappi di mano, come di fatto è già successo.
Tra i tanti aspetti da chiarire del piano c’è anche quello della forza di stabilizzazione che dovrebbe intervenire nel dopoguerra, oltre che tempi e modi del ritiro di Israele. Quali sono i nodi da sciogliere?
Il piano è veramente troppo indeterminato. Hamas è talmente debole che potrebbe anche accettarlo, soprattutto perché per farglielo digerire sono entrati in campo due Paesi fondamentali in questa nuova fase della sua storia: il Qatar, che ospita Hamas e che ha pagato un prezzo anche d’immagine molto duro con l’attacco missilistico del 9 settembre, e la Turchia, coinvolta ai massimi livelli: non per niente a Doha è arrivato il capo dell’intelligence turca, proprio per parlare con Hamas.
Tutto questo cosa significa?
Che c’è una sorta di tutela, di guardianìa da parte di Qatar e Turchia perché Hamas digerisca il piano. La Turchia è una specie di rifugio anche per un’altra parte di Hamas, non quella della leadership, ma degli ideologi.
Ma il piano di Trump ha la possibilità di essere realizzato o rischia di restare sulla carta?
Sul fatto che questo piano abbia un seguito, metto tanti punti interrogativi. Magari Hamas dirà di sì, ma resta da capire come avverrà il ritiro israeliano, quale ruolo avrà Tony Blair, una delle persone più divisive non solo in Medio Oriente ma anche nel Regno Unito. Siamo in una prospettiva talmente neocoloniale che sembra si debba gestire la riserva indiana dei palestinesi. Peccato che siamo nel 2025. Credo che in questo modo non solo non si possa costruire la pace, ma neanche una normalizzazione.
Il fatto che il piano venga accettato da tutti non può favorire la sua applicazione?
È un piano che rischia di non risolvere niente. Non solo: Trump è andato alle Nazioni Unite dopo aver vietato l’ingresso negli USA ad Abu Mazen e alla delegazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), e ha fatto un discorso di 57 minuti dicendo praticamente che l’ONU è inutile. Poi, però, ha dovuto riconoscergli un ruolo, perché è l’unica organizzazione che può far entrare gli aiuti umanitari a Gaza e distribuirli. E alla fine anche Guterres, il segretario generale delle Nazioni Unite, dice che il piano va bene.
Netanyahu ha detto sì al piano, ma Smotrich e Ben-Gvir hanno detto chiaramente che a loro non piace per niente: Israele lo rispetterà?
Lo stesso Netanyahu ha detto che non ci sarà uno Stato della Palestina e che Israele non si ritirerà dalla Striscia. Insomma c’è da chiedersi cos’è questo piano e anche che cosa sarà la nuova Gaza: si è distrutto tutto dimenticando 5mila anni di storia per puntare sul gas naturale di fronte alla Striscia, per fare diventare l’area un terminal della gestione dell’energia nel Mediterraneo orientale? È tutto ancora troppo indistinto, vago: non abbiamo ancora compreso cosa c’è dietro.
(Paolo Rossetti)
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