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Home » Esteri » Medio Oriente » GAZA SENZA TREGUA/ “Hamas si prepara alla guerriglia e svela i problemi del governo Netanyahu”

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GAZA SENZA TREGUA/ “Hamas si prepara alla guerriglia e svela i problemi del governo Netanyahu”

Int. Filippo Landi
Pubblicato 16 Luglio 2025 - Aggiornato 17 Luglio 2025 ore 01:47
Gaza

Palestinesi tentano di sfuggire alle bombe israeliane ad Al Nusairat, Gaza (Ansa)

Tregua per Gaza lontana: senza un accordo Israele continuerà con la pulizia etnica e Hamas inizierà la guerriglia anche fuori dalla Striscia

Il governo Netanyahu perde i pezzi, ma continua nella sua guerra permanente a Gaza, come in Libano e in Siria. E questo nonostante il reclutamento dei riservisti cominci a diventare un problema. L’esecutivo è lontano dal concludere un accordo con Hamas per il cessate il fuoco proprio perché non vuole che le armi tacciano definitivamente.


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Difficile, spiega Filippo Landi, già corrispondente RAI a Gerusalemme e inviato del Tg1 Esteri, che si trovi un’intesa, anche se stavolta i Paesi arabi farebbero sentire la loro voce, addebitando a Israele le sue responsabilità. Se si raggiungesse l’accordo, bisognerebbe pensare a un percorso che porti alla pace, altrimenti Israele proseguirà con la pulizia etnica e Hamas darà corso alla guerra d’attrito che ha annunciato con azioni dentro e fuori Gaza.


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Il partito della Torah lascia il governo di Netanyahu in dissenso con la leva obbligatoria per gli studenti delle yeshiva, si riaccende la contrapposizione fra esecutivo e procuratrice generale e anche il dibattito con le opposizioni sulla cosiddetta città umanitaria in cui radunare i palestinesi. Perché il clima politico israeliano si sta surriscaldando?

Sono arrivati al pettine diversi nodi. Uno di questi è quello della coscrizione obbligatoria per i giovani secondo un disegno di legge da mesi all’attenzione del Parlamento, in merito al quale i partiti religiosi hanno sollecitato diversi emendamenti. Il tema è diventato ineludibile, perché il reclutamento dei riservisti non va più così bene come nei primissimi mesi del conflitto. Ci sono persone che cercano di ritardare la loro presenza nell’esercito e, nel contempo, a causa del prolungamento della guerra, occorrono sempre più soldati. I riservisti, nel momento in cui svolgono il servizio militare, abbandonano i posti di lavoro; l’intento è di limitare queste assenze ampliando la platea delle persone convocate.


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Si ragiona come se la guerra dovesse proseguire per molto tempo ancora?

Hamas, in un comunicato molto articolato, ha detto esplicitamente che si apre una nuova fase del conflitto. Sarà una guerra di attrito, un termine che a Israele ricorda situazioni come quelle di Gaza tra il 2000 e il 2005, anno in cui furono ritirati i soldati e le colonie dalla Striscia proprio perché il numero delle vittime tra i militari israeliani cresceva in modo esponenziale. Alla fine di un conflitto fatto di attentati e distruzioni di edifici militari, fu deciso il ritiro da parte del primo ministro di allora, Sharon. Fu Sharon, infatti, che ritirò soldati e coloni da Gaza, mentre prima di lui Barak li ritirò per lo stesso motivo dal sud del Libano. Guerra d’attrito, insomma, è un’espressione che prefigura un lungo periodo in cui, in assenza di soluzioni politiche, il conflitto si trasformerà, per Hamas, in una permanente guerriglia.

Israele ha delle oggettive difficoltà a sostenere la guerra?

Ci sono problemi in termini di risorse umane ed economiche. Il Governo e Netanyahu sono dell’idea che il campo di concentramento più volte annunciato nel sud di Gaza debba realizzarsi per accogliere, in prospettiva, tutta la popolazione della Striscia, almeno 2 milioni e 100mila persone. Alcuni esponenti dell’opposizione, come Lapid, dicono che sarebbe una scelta sbagliata, probabilmente per l’impatto devastante che Israele subirebbe davanti all’opinione pubblica internazionale. Il dibattito su questo tema è anche economico: le stime del ministero dell’Economia e delle Finanze dicono che il primo progetto messo a punto sarebbe troppo costoso: si parla di 140 milioni di dollari al mese. I palestinesi concentrati in un punto, fino al momento della partenza verso altri Paesi, dovrebbero essere sfamati.

Non possono pensarci gli americani?

Non intendono sostituire Israele in questa incombenza. Dal punto di vista militare continuano a finanziare gli armamenti israeliani, ma lì c’è un ritorno immediato, che è quello delle fabbriche americane che producono le armi. Un ritorno che nel caso dei palestinesi non c’è.

Il governo Netanyahu rischia di cadere? Oppure otterrà comunque una sorta di sostegno esterno da chi è uscito dalla coalizione?

Questa potrebbe essere una soluzione. Il governo, comunque, ha bisogno di almeno 61 voti in Parlamento, attualmente ne ha 64; il mancato sostegno del partito della Torah lo porterebbe in minoranza: sarebbe una soluzione transitoria ma che non può durare sul lungo periodo. O Netanyahu riesce a convincere il partito della Torah a sostenerlo ancora in pieno, o si apre una crisi di più ampio respiro. La ripresa dei bombardamenti sul sud del Libano e sulla Siria potrebbe essere frutto della decisione del governo di usare l’emergenza-conflitto per obbligare i suoi sostenitori a essere compatti in Parlamento.

Le trattative per tregua e liberazione degli ostaggi non si sbloccano. Come sempre, non c’è accordo sulla fine della guerra?

C’è una novità sul fronte delle trattative. Qatar ed Egitto hanno detto che vanno avanti, ma che, nel contempo, Israele non può sfuggire alle sue responsabilità per quello che sta accadendo. Vuol dire che questa volta i Paesi arabi, anche quelli più vicini agli USA, condanneranno senza mezzi termini un eventuale fallimento della tregua, addebitandone la responsabilità a Israele perché non vuole considerarla l’inizio della fine del conflitto e non un arco di tempo da far trascorrere per poi ricominciare il piano di pulizia etnica che è in corso. È un messaggio diretto anche a Trump: deve sciogliere i nodi rimasti nel rapporto tra Stati Uniti e Israele. Accettare un cessate il fuoco temporaneo senza alcuna garanzia, continuando lo spostamento dei palestinesi, potrebbe significare un tracollo di immagine anche per gli USA.

Israele è tornato ad attaccare gli Hezbollah in Libano e le forze armate siriane, ponendosi a difesa dei drusi. Si attua ancora la strategia della guerra permanente?

Teheran, in questi giorni, ha confermato che il presidente Pezeshkian, durante la guerra dei 12 giorni, è stato oggetto di un attentato, un tentativo di ucciderlo compiuto attraverso un’azione missilistica israeliana. Il regime ha ben presenti tutti i motivi che potrebbero spingerlo a una risposta. Israele bombarda anche per dare un segnale. È come se dicesse: “Se vengono resi pubblici tutti i risvolti della guerra e vi preparate a un’azione contro di noi, siamo pronti anche a prevenirvi”.

Ventisette ex ambasciatori in Medio Oriente e Nord Africa denunciano con una lettera la mancanza di iniziativa della UE sulla crisi umanitaria nella Striscia di Gaza. La comunità internazionale sta cambiando atteggiamento su questo tema?

Lo scollamento tra l’opinione pubblica dei Paesi europei, Italia compresa, e i vertici politici che sono ancora sulla linea del totale appoggio a Israele fa il paio con quello tra i vertici diplomatici e amministrativi e i politici stessi. Un aspetto da non sottovalutare: il mondo politico europeo deve valutare che c’è in prospettiva una ricaduta negativa in termini di consenso. In Gran Bretagna, la discesa in campo dell’ex leader laburista Corbyn è il tentativo di intercettare un malcontento per i comportamenti non solo del governo inglese sulla guerra a Gaza.

La tregua per Gaza, intanto, verrà firmata o no?

Difficile che la trattativa si sblocchi. Se succederà, la politica non potrà tirare i remi in barca, perché altrimenti sappiamo già quello che accadrà: da parte israeliana una vera e totale pulizia etnica, dall’altra parte una guerra di attrito che riporterà il conflitto dentro e intorno a Gaza. Il cessate il fuoco non può essere l’ultima parola, ma l’inizio di un percorso, cosa che il governo israeliano non vuole.

(Paolo Rossetti)

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Tags: Benjamin NetanyahuDonald Trump

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