I negoziati per Gaza sono ancora bloccati: a Israele e Hamas la guerra conviene. Mentre la Knesset approva l’annessione della Cisgiordania
Trattative in Sardegna, delegazioni ritirate dai negoziati, la risposta di Hamas alla proposta israeliana valutata in mille modi diversi. Le trattative per la tregua di 60 giorni a Gaza, l’inizio dei colloqui di pace e la liberazione degli ostaggi, in realtà, sono sempre in alto mare. Anzi, Steve Witkoff, l’inviato di Trump, alla fine ha dichiarato che si sono interrotte.
E la situazione, osserva Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di geopolitica del Medio Oriente, potrebbe restare questa ancora per molto: troppo distanti gli obiettivi dei contendenti per trovare un punto di equilibrio. Forse lo si farà quando si toccherà il fondo di una guerra che però già ora si impone per le sue atrocità. Intanto, in Israele prende sempre più corpo l’idea di annettersi la Cisgiordania e occupare tutta la Striscia.
Times of Israel dice che la risposta di Hamas è giudicata praticabile da Israele, altre fonti dicono che è migliorata ma non abbastanza, altre ancora, come Channel 12, che non sono stati fatti passi significativi. E poi c’è Netanyahu che avrebbe richiamato la delegazione impegnata nei negoziati per tregua e liberazione ostaggi. Infine Witkoff che parla di negoziati interrotti. Risultato: siamo al solito impasse?
Sì. Non sappiamo cosa chiedano le parti, anche se Hamas vorrebbe avere il controllo della Striscia e anche dell’eventuale ricostruzione, ma non accetterà mai di deporre le armi, tantomeno di essere estromesso dalla gestione della Striscia. Dall’altro lato Israele deve ottenere il rilascio degli ostaggi, ma vuole anche un ridimensionamento, anzi la sparizione di Hamas da Gaza. Purtroppo entrambe le parti hanno tutto il vantaggio a continuare la guerra.
Perché?
Hamas, nonostante l’alto costo in termini anche di vite umane, di distruzione, sta mettendo a repentaglio l’immagine di Israele nel mondo: una nave da crociera in Grecia non ha potuto attraccare e far sbarcare i turisti israeliani perché erano in corso proteste sul molo per non farli scendere. Questo episodio dà la misura di quanto sia compromessa ormai anche l’immagine dell’israeliano comune. Dall’altro, Netanyahu, alleato con l’estrema destra, per coprire i suoi guai personali e per tenere l’opinione pubblica sempre in allerta, non può rinunciare a combattere.
Perché questo balletto estenuante delle trattative se in realtà alle parti in causa va bene il conflitto?
Devono farlo davanti all’opinione pubblica internazionale, per il dramma che sta vivendo Gaza: Hamas non può dire che sta sacrificando volentieri la popolazione di Gaza, né Israele che sta facendo volentieri vittime civili, ma sotto sotto, entrambe hanno molto da guadagnare. Se Hamas riuscisse a far girare questa storia nella direzione del riconoscimento di uno Stato palestinese, giustificherebbe l’attacco del 7 ottobre. Se Israele riuscisse a ottenere la distruzione totale di Hamas, e forse anche l’occupazione a tempo indeterminato di Gaza e la sua ricostruzione sul modello trumpiano (oltre ad avere mano libera, ovviamente, in Cisgiordania), avrà aggiunto ulteriori risultati a quelli ottenuti con l’Iran e i suoi proxy.
Sono due obiettivi talmente contrapposti che praticamente è come dire che è impossibile che trovino un punto di equilibrio?
Forse, perché cambi qualcosa, bisognerà raggiungere il punto più basso; d’altra parte potrebbe succedere abbastanza in fretta. Le immagini di quello che sta succedendo a Gaza, in termini di distruzione, di fame e sofferenza della popolazione, probabilmente sono già il punto più basso del conflitto arabo-israeliano da un punto di vista umano. Da qui potrebbe nascere qualcosa di positivo, o forse no, solo il tempo ce lo dirà.
Si parlava di un incontro in Sardegna, su uno yacht di lusso, tra Witkoff, Ron Dermer, ministro israeliano, e il primo ministro al-Thani del Qatar. Incontro che qualcuno, invece, ha messo in dubbio, a riprova della confusione che si sta vivendo. A parte la scelta dello yacht come sede, senza Hamas era un summit destinato a fallire?
È la rappresentazione plastica del divario fra le élite che decidono e le persone comuni che invece subiscono queste scelte, ma questo vale anche per i vertici di Hamas: quando erano in esilio, in Qatar, passavano da un albergo a cinque stelle a un altro, nel frattempo hanno deciso l’attacco del 7 ottobre e, mentre pregavano, ringraziando Dio per questa operazione, davano il via a una catastrofe umanitaria per 2 milioni di persone che dura da due anni.
Hamas, nella isposta alla proposta di Israele, oltre a 2000 prigionieri palestinesi scarcerati per liberare inizialmente 10 ostaggi, chiede un maggiore afflusso di aiuti e una mappa più estesa per il ritiro delle truppe israeliane da Gaza. Gli israeliani vogliono una zona cuscinetto intorno alla Striscia di 1,2 miglia. Questi particolari ci dicono qualcosa sulle intenzioni di Israele (e di Hamas) per il futuro della Striscia?
Certamente viene valutata la compatibilità di questi elementi con gli obiettivi prefissati a breve, medio e lungo termine. Difficilmente, tuttavia, Israele concederà un ritiro delle truppe. Grazie alla pressione esercitata dalla Chiesa vedo, invece, più margine per un maggiore spazio agli aiuti.
Il vero punto che divide le parti è la richiesta della fine dei combattimenti da parte di Hamas che Israele invece non vuole?
Sì, certo, Hamas vorrebbe tanto che la guerra finisca perché permetterebbe di riprendere fiato. È disposta a una tregua per aprire una trattativa seria, che non preveda la ripresa dei combattimenti. Israele, però, ha come obiettivo di sradicare Hamas e non può farlo dandole il tempo di riorganizzarsi. Il problema è che in questo non si dà tregua neanche alla popolazione.
Una mozione della Knesset, non vincolante, approva l’annessione della Cisgiordania, mentre il ministro di estrema destra Amihai Ben-Eliyahu, secondo quanto riportato da Axios, ha dichiarato che Gaza sarà tutta israeliana. In Israele resiste l’idea di annettersi tutti i territori palestinesi?
È un’idea che c’è fin dalla fondazione dello Stato d’Israele. Ora l’attacco del 7 ottobre ha creato un contesto che può portare a questo risultato, con un’amministrazione come quella di Trump che è disposta a chiudere tutti e due gli occhi e a lasciare fare. D’altra parte, quando per decisione di Sharon Israele aveva abbandonato la Striscia, c’erano state delle proteste.
L’idea che, dal punto di vista della comunità internazionale, questi siano territori legalmente occupati è una cosa che non è mai andata giù a Israele: se c’è possibilità di rivendicarli, ben venga. In fondo, per due anni, la popolazione palestinese a Gaza ha subito di tutto e, nonostante un’escalation nei confronti di coloro che risiedono in Cisgiordania, il mondo non sta muovendo un dito. Di fatto sono già quasi territori annessi, manca il riconoscimento internazionale.
Non basta l’appello dei 28 Paesi perché venga messa fine alla guerra a Gaza?
Nessuno nel mondo ha la forza di imporre alcunché a Israele, bisognerebbe attuare sanzioni non avendo neanche l’appoggio di una superpotenza come gli Stati Uniti, che è addirittura schierata dall’altra parte. E poi, francamente, in questo momento l’Europa è distratta dai dazi di Trump, i Paesi arabi sono troppo spaventati e non vogliono prestare il fianco per farsi attaccare da Israele, che lo ha già fatto con l’Iran, la Siria, il Libano, lo Yemen. In sintesi, di trattative dovremo parlare ancora per molto…
(Paolo Rossetti)
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