Israele ha detto che non esistono le condizioni avanzate da Hamas per un sì alla tregua. Oggi incontro tra Trump e Netanyahu alla Casa Bianca

Non si tratta di cinismo, ma di un’analisi realistica del contesto. Ed è abbastanza evidente che anche questa ennesima trattativa per una tregua dei combattimenti a Gaza sembra destinata ad arenarsi tra i distinguo, le richieste, gli interessi e gli scopi veri delle parti in causa.

Da una parte Hamas, che nei suoi deliri antisionisti preferisce di gran lunga un martirio finale all’accettazione di una pax a tempo determinato che somiglierebbe troppo ad una resa, e che indebolirebbe la narrazione di sé basata su suprematismo ideologico e religioso, forza muscolare, ostinata resilienza e controllo di territorio e abitanti.



Dall’altra Israele, governata da chi basa a sua volta la propria permanenza nelle stanze dei bottoni sulla capacità di spegnere il cerchio di fuoco che il nemico islamista iran-guidato aveva saputo erigere attorno ai propri confini, grazie alle milizie proxy, le legioni straniere di Teheran, e cioè i terroristi di Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano e le milizie sciite basate in Siria e in Iraq.



Oltre, più a distanza, ai ribelli Houthi nello Yemen, che proprio sabato sera hanno lanciato un missile contro Israele, intercettato nell’area del Mar Morto.

Malgrado Trump abbia detto che potrebbe esserci un accordo di cessate il fuoco a Gaza (per 60 giorni) già questa settimana (ha aggiunto anche “stiamo inviando un sacco di soldi e un sacco di aiuti”, quindi la fine della guerra per gli Usa sarebbe un risparmio considerevole), le modifiche avanzate da Hamas sono già state giudicate irricevibili da Israele.

Si tratterebbe della richiesta di rivedere tre clausole nella proposta, che coinvolgono garanzie per la continuazione dei negoziati per un cessate il fuoco permanente, aiuti umanitari e il ritiro dell’IDF da Gaza.



Tutti punti sui quali Tel Aviv non intende trattare, forte della “profezia” ricordata dall’analista Zvi Bar’el: “sotto la pressione israeliana, i palestinesi di Gaza si solleveranno contro Hamas e rovesceranno il suo dominio”. Effettivamente, le manifestazioni dei palestinesi affamati contro l’oltranzismo di Hamas si succedono da un po’ di tempo, ma senza risultati concreti.

L’ufficio del primo ministro ha confermato l’altra sera che i “cambiamenti che Hamas vuole apportare alla proposta del Qatar non sono accettabili per Israele”, ma Netanyahu ha accettato di continuare i negoziati per un accordo: i negoziatori israeliani sono partiti ieri per il Qatar per ulteriori colloqui. Non ci sono grandi attese, ma si vedrà.

Nel frattempo, continuano le difficoltà nella distribuzione degli aiuti umanitari alla popolazione stremata dopo 340 giorni di guerra. Il capo della Fondazione Umanitaria di Gaza (GHF) ha detto che due operatori umanitari statunitensi sono stati feriti da granate lanciate contro di loro. Il portavoce del dipartimento di Stato Usa Tammy Bruce ha detto: “Questo atto di violenza contro le persone che in realtà portano sollievo agli abitanti di Gaza mette a nudo la depravazione di Hamas. GHF ha già contribuito con oltre 62 milioni di pasti. Niente fermerà questi coraggiosi operatori”.

L’IDF (le forze armate israeliane) ha detto di aver facilitato l’evacuazione dei due feriti, aggiungendo che “le organizzazioni terroristiche nella Striscia di Gaza continuano gli sforzi per sabotare la distribuzione degli aiuti umanitari”.

Ma oltre agli attacchi di Hamas, vanno aggiunte anche le reazioni eccessive dei soldati IDF (le forze armate di Tel Aviv) contro la folla esasperata che circonda i centri di smistamento, con sparatorie che da intimidatorie si sono tramutate a volte in letali.

E se non bastasse, i rifornimenti degli aiuti stanno attirando anche i gruppi sparsi di milizie, o meglio clan banditeschi, che si dice siano spinti proprio da Israele nel tentativo di fiaccare l’egemonia di Hamas nel sud della Striscia. Un’egemonia che si basa su una rete ancora resistente, anche se ridotta, di tunnel e nascondigli dove i terroristi (se ne calcolano almeno duemila) nascondono l’arsenale residuo: l’altro giorno sono riusciti a lanciare altri due razzi contro il nemico, tutti intercettati e distrutti, ma che dimostrano comunque una certa capacità di colpire.

La guerra ad oltranza di Netanyahu mira proprio ad azzerare definitivamente questo pericolo, che considera “domestico” in quella che egli ritiene una porzione di Israele. Al pari di certe porzioni della West Bank, dove già i coloni si sentono legittimati ad impossessarsi di terreni dove insediarsi.

Haaretz riferisce che centinaia di residenti del villaggio palestinese di Mu’arrajat, vicino a Gerico, sono stati sfollati con la forza venerdì, segnando una delle più grandi espulsioni della Cisgiordania dall’inizio della guerra di Gaza. La gente del posto ha detto che anni di molestie, violenza e furto da parte dei coloni sono culminati quando i coloni hanno vandalizzato una casa e rubato 60 pecore, spingendo la decisione della comunità di andarsene.

Sull’altro fronte, il Libano, al Jazeera ha segnalato attacchi di droni israeliani che hanno preso di mira tre località nel sud: Bint Jbeil, Shebaa e Shaqra, e l’IDF ha detto di aver ucciso un membro dell’élite Radwan Force di Hezbollah in un attacco ad Aynata, villaggio vicino a Bint Jbeil.

Ed infine, nessuna aspettativa positiva dopo la guerra dei 12 giorni. Trump ha detto che l’Iran non ha accettato di fermare l’arricchimento nucleare o di consentire ispezioni dell’IAEA e che ne avrebbe discusso con Netanyahu, proprio oggi alla Casa Bianca.

Il presidente Usa ha aggiunto che gli attacchi statunitensi hanno permanentemente annullato il programma nucleare iraniano, anche se potrebbe essere riavviato altrove, ma che lui non l’avrebbe permesso. Ed è chiaro che ancora meno permissivo sarebbe Netanyahu, visto che proprio Israele sarebbe il primo obiettivo dell’eventuale arsenale nucleare iraniano.

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