GEOSTORIA/ Quando Johnson congelò la guerra in Vietnam (e non si ricandidò)
Era il 1968 quando le dichiarazioni di Walt Cronkite sulla guerra in Vietnam portarono il Presidente Johnson a rinunciare alla candidatura per la conferma alla Casa Bianca

All’inizio del 1968 – mentre iniziava la campagna elettorale per le presidenziali negli Usa – la guerra in Vietnam entrava nel quinto anno della sua fase “calda”. L’ennesimo conflitto d’attrito in Asia (dopo quello di Corea e quello francese nella stessa Indocina) era iniziato quando gli Stati Uniti avevano deciso di trasformare in scontro militare aperto la tensione geopolitica strutturale fra il Vietnam del Nord (dittatura comunista appoggiata principalmente dall’Urss ma anche dalla Cina maoista) e il Vietnam del Sud, Stato formalmente democratico, ma interamente controllato e puntellato dagli Usa in funzione di contenimento delle pressioni comuniste in Asia. In Vietnam gli Stati Uniti “dem” di John Kennedy e poi di Lyndon Johnson avevano già perso 20mila vite umane e speso una fetta consistente dei mille miliardi di dollari (a valori attuali) che avrebbero rappresentato il conto finale di vent’anni di guerra. Attorno a Saigon, ovviamente, il Paese era devastato.
Il ’68 vietnamita cominciò con una drammatica escalation: la grande “offensiva del Tet” lanciata dal Nord contro il Sud, quasi a rovesciare il teorema iniziale di una guerra con cui gli Usa volevano spazzare via Hanoi e infliggere un duro colpo alla potenza sovietica e alla sua alleata cinese in Asia. L’esito fu sanguinoso sul campo (nel singolo anno le perdite umane Usa avrebbero superato quelle dal 1964-67), ma, soprattutto, provocò un terremoto politico negli Usa.
Qui il giornalista di gran lunga più famoso – Walt Cronkite, anchorman di Cbs News – decise anzitutto di andare a Saigon per toccare con la propria mano una situazione che chiaramente stava sfuggendo dalle mani della Casa Bianca e del Pentagono. La professionalità e la credibilità di Cronkite erano fuori discussione: aveva raccontato dalla prima linea la Seconda guerra mondiale, non aveva mai avuto esitazioni sulla ragioni ideali e geopolitiche della Guerra Fredda ed era totalmente a suo agio nella Nuova Frontiera kennedyana (fu Cronkite a raccontare in diretta agli americani la terribile giornata di Dallas).
Quando tornò dal fronte indocinese, Cronkite si concesse un raro editoriale, pronunciato nei tre minuti finali di Cbs News la sera del 27 febbraio 1968. Il giornalista disse che la guerra in Vietnam gli sembrava ormai “non poter essere più vinta” e che agli Stati Uniti si prospettava una sola “via d’uscita razionale”: “Negoziare non da vincitori ma da popolo onorato, che vive del suo impegno a difendere la democrazia e ha fatto il possibile per farlo”.
Si dice che, appena Cronkite ebbe terminato di parlare, Johnson disse ai suoi collaboratori: “Se ho perduto Walt ho perduto l’America”. Trascorse soltanto un mese e ad apparire sugli schermi, la sera del 31 marzo, fu lo stesso Presidente. Parlò molto più a lungo del giornalista e tracciò un vasto bilancio dell’intervento americano in Vietnam. Ma ciò che finì nei libri di storia furono le battute finali, a un’America lacerata e in tumulto. “Ho concluso – disse Johnson – che non dovrei permettere che la Presidenza venga coinvolta in divisioni di parte, che si stanno aprendo in quest’anno politico. Di conseguenza non proporrò – e non accetterò da parte del mio partito – la candidatura per un altro mandato come Presidente”.
Ciò che accadde dopo è stato raccontato mille volte. A maggio gli Usa chiesero l’apertura di negoziati sul Vietnam. Fra aprile e giugno furono assassinati prima Martin Luther King, il grande paladino dei diritti civili e delle minoranze, e poi Robert Kennedy, quasi certo candidato democratico per la Casa Bianca. In agosto Johnson annunciò la sospensione dei bombardamenti americani in Vietnam, mentre Chicago fu la grande metropoli Usa più scossa da violenti disordini. A novembre fu eletto Presidente il repubblicano Richard Nixon, che prevalse sul candidato democratico “di bandiera”, il vice di Johnson, Hubert Humphrey.
Nixon, vice del generale Dwight Eisenhower, il “padre” della Guerra Fredda negli anni ’50, era stato battuto da JFK nel 1960. Dalla Casa Bianca (dove fu rieletto nel 1972) condusse a termine nel 1973 faticosi colloqui di pace con il Nord Vietnam. Il capo-negoziatore Usa fu Henry Kissinger, cui fu assegnato il Nobel per la Pace e che fece leva anche sullo storico viaggio di Nixon a Pechino: pietra miliare della distensione fra Ovest ed Est. Ma questo non bastò per portare davvero la pace in Vietnam: in cui un armistizio precario fu travolto nel 1975, vittima collaterale della caduta di Nixon per lo scandalo Watergate. Dopo una drammatica ritirata Usa – nei fatti avvicinata nell’agosto 2021 da quella dall’Afghanistan – il Vietnam del Nord invase e occupò il Sud. E solo dopo la caduta dell’Urss e la svolta impressa di Deng Xiaoping alla Cina post-maoista poté iniziare una marcia che vede oggi Ho Chi Minh City (la vecchia Saigon) come piccola Shanghai di una delle nuove “tigri” economiche asiatiche.
In quelle sere tempestose della primavera 1968, tuttavia, Cronkite non azzardò alcuna profezia. Concluse sempre il suo notiziario delle sei di sera (il più seguito) con una formula diventata proverbiale: “And that’s the way it is for the”, seguito dalla data del giorno. Così andavano le cose il giorno in cui ebbe il coraggio di dire che in Vietnam il massacro andava fermato. Così andavano le cose quando il Presidente degli Stati Uniti capì che su quella guerra sfuggitagli di mano finiva (in anticipo) la sua esperienza alla Casa Bianca e andava in pezzi anche qualche contraddizione e falsa promessa del kennedysmo. Almeno per allora.
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