I NUMERI DEL LAVORO/ Cosa c’è dietro le dimissioni dal tempo indeterminato

- Giampaolo Montaletti

I dati Istat sulla competitività dei settori produttivi svela uno dei problemi del mercato del lavoro italiano che va risolto anche dalle imprese

dimissioni lavoratore senza preavviso Image by StockSnap from Pixabay

Il 7 aprile l’Istat ha presentato il “Rapporto sulla competitività dei settori produttivi – edizione 2022”. Il volume raccoglie informazioni e molti dati sulle performance dei settori in Italia fino al 2021 e costituisce una fotografia della situazione prima dell’inizio della guerra in Ucraina.

Il 2021 ha visto la ripresa dell’occupazione con un recupero solo parziale rispetto al 2020. La ripresa del lavoro è avvenuta soprattutto attraverso l’aumento delle ore lavorate. Anche se l’incremento è stato dell’8% nel 2021, il monte ore complessivo è ancora più basso del 4,1% rispetto al 2019 e del 9,1% rispetto al 2007, l’anno di massimo assorbimento di lavoro da parte dell’economia italiana. 

Si sono registrate sensibili differenze fra settori. Nell’industria il recupero produttivo è stato ottenuto facendo aumentare le ore lavorate pro capite. Le cose sono andate diversamente nel settore delle costruzioni, dove alla crescita delle ore pro capite è seguito fin dall’inizio dell’anno un aumento delle posizioni lavorative (i contratti). Nel settore dei servizi l’orario pro capite è cresciuto e cresce lentamente, mentre le posizioni lavorative sono aumentate del 5,4% a fine anno, grazie anche ai contratti part-time. 

Gran parte del recupero occupazionale riguarda i lavoratori alle dipendenze, mentre gli indipendenti, che sono 5,7 milioni, continuano a calare dal 2008, quando erano 6,6 milioni.

Con la crescita dell’occupazione e delle ore lavorate torna a crescere anche il numero di posti vacanti che le imprese non riescono a coprire. La quota delle imprese che segnalano difficoltà nel reperire la manodopera necessaria a svolgere le proprie attività (un indice di particolare gravità della situazione) è salita al 6,1% nell’industria e al 12,8% nei servizi. 

Con il tasso di disoccupazione del 2021 sopra al 9% si fa fatica a capire come un recupero nemmeno così vigoroso possa generare un’immediata mancanza di persone.

Istat segnala inoltre che nei primi 9 mesi del 2021 le dimissioni dal tempo indeterminato (o altri contratti permanenti) sono salite dell’8,1% rispetto allo stesso periodo del 2019. Al di là dei numeri relativi non si tratta di un fenomeno comparabile con quello che accade in altri mercati del lavoro, dove i lavori a termine coprono una quota maggioritaria dello stock, ma comunque è un segnale di cambiamento che pone delle domande: forse il lavoro non interessa più, non ha più senso?

Più avanti nel report Istat presenta un’analisi, molto tecnica, che contiene, o almeno suggerisce, una parte della risposta.

Collegando i dati sull’istruzione dei lavoratori a quelli dei livelli di istruzione effettivamente richiesti e impiegati dalle singole imprese, Istat arriva a stimare il grado di sovraistruzione o di sottoistruzione nel sistema delle imprese italiane e la sua evoluzione fra il 2014 e il 2019.

Usando come indicatore il numero di anni medi di istruzione formale richiesti dalle imprese, si nota un aumento lento ma costante (da 10,7 a 11,1 anni) della domanda di competenze con un’accelerazione negli ultimi due anni. 

La sovraistruzione ha un peso maggiore rispetto alla sotto istruzione. Gli anni medi di sovraistruzione sono costanti e pari a 1,2, mentre la sottoistruzione media passa da 0,7 anni a 0,8; questo aumento relativo della sottoistruzione misura la difficoltà a coprire le posizioni lavorative disponibili con personale adeguato, soprattutto nel settore dei servizi, dove il livello di sottoistruzione risulta più elevato rispetto all’industria.

I dati di performance delle imprese mostrano, come ci si poteva aspettare, che i lavoratori sovraistruiti hanno un impatto positivo sulla produttività soprattutto nella manifatturiera ad alto impiego di tecnologie e nei servizi ad alto contenuto di conoscenza. D’altra parte l’impatto della sottoistruzione è naturalmente negativo.

Ci sono due considerazioni importanti di cui tenere conto: la media rilevata di anni di formazione formale effettivamente impiegati è spinta verso il basso dalla presenta di sottoistruzione; l’esperienza lavorativa può colmare i divari rilevati rispetto alla richiesta di formazione formale, mitigando l’impatto negativo della sottoistruzione.

Resta il fatto che i sovraistruiti sono i primi candidati a cercare un lavoro migliore e più significativo e questo in periodi di ripresa spiega l’esodo dai contratti a tempo indeterminato. A tutte queste considerazioni manca poi la variabile salariale: in tempi di inflazione crescente molti possono essere spinti a lasciare il posto di lavoro sicuro ma poco pagato per uno più promettente e che riservi non solo maggiori soddisfazioni economiche, ma anche un maggiore interesse professionale. 

La difficoltà crescente a coprire posti nella Pubblica amministrazione, che pure offre posti sicuri, probabilmente risiede nello scarso fascino delle sue proposte professionali e retributive. D’altra parte non si può urlare per anni contro la presunta mancanza di professionalità del dipendente pubblico e la burocrazia dello Stato e poi sperare che un giovane ci voglia lavorare per quattro soldi.

Se i sovraistruiti si muovono verso posizioni migliori non c’è da gridare allo scandalo, possono solo migliorare la produttività complessiva del sistema. Piuttosto i datori di lavoro che restano con lavoratori sottoistruiti si chiedano se possono fare qualcosa di diverso dal lamentarsi (sul giornale o al bar). 

Cosa? Due o tre idee copiate dalle imprese concorrenti: accordarsi con i centri di formazione per costruire insieme percorsi adeguati d assumere giovani, chiamare un operatore pubblico o privato e usare le politiche attive del lavoro per fare formazione e attrarre nuovi talenti, pagare adeguatamente i nuovi assunti. 

Tutto compreso costa meno della fuga dei lavoratori migliori.

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