Dopo 12 anni di crisi ancora occorre spiegare che la sovranità è necessaria. In materia l’ultimo esprimersi è stato Silvio Berlusconi, affermando che il sovranismo è una sciocchezza. Ma in realtà la sua affermazione corrisponde a quella di diversi economisti, piuttosto noti in Italia, i quali continuano a sostenere che un’eventuale uscita dall’euro sarebbe disastrosa per l’economia del Paese e che ogni ipotesi di sovranità, in un mondo ormai globalizzato, è destinata a fallire. In realtà, questi 12 anni di crisi hanno mostrato che a fallire è stata proprio la globalizzazione, è stato il libero mercato che invece di portare la diffusione del benessere ha concentrato le ricchezze in poche mani e ha diffuso la povertà in larghi strati della popolazione.
Ho mostrato questa realtà nello scorso articolo, dove ho preso ad esempio la Germania, proprio per mostrare che il libero mercato non ha funzionato nemmeno in quella nazione, spesso decantata come quella che ha tratto i maggiori benefici dalla moneta unica. Sicuramente è vero, la Germania ha tratto i maggiori benefici dall’euro, ma questi sono andati a favore di pochi mentre la gran parte della popolazione si è dovuta arrangiare tra un mini-job e l’altro.
Nonostante queste evidenze ormai consolidate e nonostante l’evidenza di una Bce incapace di raggiungere il suo unico obiettivo, cioè una inflazione prossima al 2%, continuano a ritenere il progetto euro irreversibile e irrinunciabile. E di fronte all’obiezione che con la ripresa della sovranità monetaria si potrebbe proteggere il debito dalla speculazione proprio come fa il Giappone, spiegano che invece potrebbe finire tutto molto male come in Venezuela, con depressione economica e inflazione incontrollabile. Perché, sempre secondo loro, la stampa “ossessiva” di moneta (e non conoscono alcuna altra stampa di moneta, solo quella “ossessiva” quando praticata da uno Stato) produce inevitabilmente inflazione. Ma nulla hanno da dire sulla stampa straordinaria di moneta fatta dalla Bce stessa, quella stampa di moneta che ha provocato volumi eccezionali nei mercati speculativi e che hanno rischiato a più riprese in questi anni di travolgere il sistema bancario europeo.
Ma c’è un altro elemento che contraddistingue l’Italia (e il Giappone) da tutte le altre economie di paesi avanzati (ed è il motivo per cui l’Italia non finirà mai come il Venezuela!): il fatto che in termini di debito totale (Stato più famiglie e imprese) l’Italia si trova in ottima posizione rispetto ad altri paesi (come Francia, Olanda, Svezia, per citare qualche esempio) che hanno un debito aggregato molto superiore. E il motivo è che il debito di famiglie e imprese italiane è molto basso; proprio come in Giappone. Questo vuol dire che lo Stato, nel caso di ritorno alla sovranità monetaria, ha il controllo della gran parte del debito di tutta la nazione, al contrario di altri paesi nei quali lo Stato non potrà avere alcun controllo su gran parte del debito, che si trova in mano ai privati.
Per certi economisti, pure cattolici, il modello Giappone non va bene, è pericoloso, anzi, è “l’isola che non c’è”. E il fatto che siano cattolici rende ancora più grave il loro pregiudizio anti-giapponese, poiché in quel Paese un indubbio merito di quel modo di gestire il debito pubblico è che hanno la disoccupazione al 2,2%, cioè a livelli impensabili oggi in Italia. E per la Dottrina Sociale della Chiesa tra i fattori della produzione il lavoro è quello più importante, con particolare riferimento al capitale. Ma questo fattore non è per nulla considerato da tanti economisti cattolici nel giudicare la situazione giapponese.
Di questa situazione critica gli altri paesi europei sono ben coscienti e la crisi sta portando in dote una serie di forti fibrillazioni politiche e di contrasti inediti. L’elezione della von der Leyen non è stata per nulla indolore poiché con questa la Germania sembra volersi accaparrare la maggior parte di poltrone decisionali all’interno dell’Ue. E la bocciatura della francese Goulard come commissaria è stata da tutti letta come uno schiaffo a Macron, il quale ha prontamente replicato facendo bocciare l’allargamento dell’Ue ad Albania e Macedonia. Siamo all’isteria e ai dispetti infantili.
A rendere il clima rovente ora c’è anche la discussione sui contributi che ogni anno ogni nazione deve fornire all’Ue. Infatti, la Brexit ormai incombe e con l’assenza della Gran Bretagna bisognerà che la quota inglese venga coperta dagli altri Stati. Ma la Germania ha già fatto sapere che lei paga troppo e che quindi non accetterà alcun aumento della propria quota. Alla faccia della solidarietà europea.
In questa situazione caotica, il Governo italiano tenta di mostrarsi un fedele esecutore dei desideri europei. Ma il piccolo problema è ora capire quali sono questi desideri. In questa situazione tragicomica (sarebbe solo comica se a rimetterci non fossero i popoli), le isterie europee si trasferiscono nella politica nazionale. Così il ministro dell’Economia Gualtieri, per tenere insieme capra e cavoli, per non scontentare nessuno ha scontentato un po’ tutti; ma non ha evitato la letterina dall’Ue, alla quale si è affrettato a rispondere signorsì va tutto bene, provocando la serie di reazioni stizzite dei diversi partiti di governo.
La scorsa settimana la ciliegina sulla torta è stata l’ultima conferenza stampa di Draghi, ormai al termine del suo mandato. Un giornalista, con intento adulatorio, gli ha ricordato che lui è stato il salvatore dell’euro, alludendo chiaramente alle dichiarazioni del luglio 2012 quando affermò che “sono qui per mantenere l’euro, costi quello che costi”. Però Draghi è stato anche lo strenuo difensore dell’affermazione che l’euro è irreversibile. E qui la logica inizia a zoppicare: se l’euro è davvero irreversibile, allora Draghi non ha salvato proprio nulla. Oppure bisogna ammettere che Draghi ha salvato l’euro (in particolare nel 2012) e quindi bisogna dedurre che l’euro non è per nulla irreversibile.