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Home » FINMECCANICA/ Avio e Ansaldo Energia: l’incubo straniero

FINMECCANICA/ Avio e Ansaldo Energia: l’incubo straniero

Paolo Annoni
Pubblicato 19 Dicembre 2012
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Infophoto

Per PAOLO ANNONI, pur con 20 anni di bassa crescita e lo spread a 300, ci sono aziende italiane per cui società internazionali di primario livello sono disposte a mettere sul tavolo miliardi

Già da diversi giorni si è rilevata un’anomala attenzione della stampa internazionale nei confronti delle vicende finanziarie-politiche italiane; di anomalo c’è sia la quantità di articoli che, soprattutto, una sorprendente benevolenza nei confronti dell’Italia, che di solito compariva alla lettera I nella parola PIIGS in compagnia di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna.

Il tenore degli ultimi commenti, invece, va da “l’Italia è più ricca della Germania” fino a “l’Italia è ai primi posti nell’indice del Fondo monetario internazionale per sostenibilità del debito” (Ambrose Evans-Pritchard per il Telegraph del 10 dicembre). Ieri è stato il turno del The Wall Street Journal che in prima pagina metteva al centro non l’Italia, ma un’azienda italiana, più precisamente Avio; secondo il Wsj General Electric vorrebbe rilevare l’81% dell’azienda (partecipata al 15% da Finmeccanica) dalla società di private equity Cinven per una cifra di circa 2,5-3 miliardi di euro.

Anche il fondo strategico italiano (Fsi) sarebbe interessato a entrare nella partita Avio come partner industriale, acquisendo sia la quota di minoranza ancora in mano a Finmeccanica, sia, come da rumours delle scorse settimane, rilevando parte della quota di Cinven; al gruppo degli interessati si unisce la francese Safran che ha manifestato un interesse chiaro per la stessa Avio.

La cessione si collega a quella di un’altra azienda italiana, Ansaldo Energia, partecipata sempre da Finmeccanica, per cui diverse società internazionali hanno presentato cifre per nulla timide con il Fondo strategico italiano intenzionato a entrare nella partita con offerte concorrenti su tutto o una parte del capitale.

Dalla vicenda si possono trarre molti spunti decisamente interessanti. Il primo è che in Italia nonostante un ventennio di bassa crescita, lo spread a 300 (eravamo a 500 qualche mese fa), il debito a duemila miliardi ci sono aziende industriali per cui, in un contesto finanziario e economico incerto, società internazionali di primario livello sono disposte a mettere sul tavolo miliardi di euro.

La ricchezza “industriale” in Italia eccede di molto l’immagine che solitamente è stata data sulla stampa nazionale e internazionale di un Paese sostanzialmente assimilabile agli altri PIIGS e di certo neanche paragonabile, in peggio, ai membri del club dei virtuosi. Immaginiamo il senso di smarrimento, alla lettura di certe notizie, dell’investitore medio d’oltremanica o d’oltreoceano dopo anni di “cattiva stampa” che di certo non ha aiutato ad associare l’Italia all’eccellenza nel campo aerospaziale o delle turbine elettriche.

Il secondo tema che si pone riguarda il soggetto venditore e i potenziali compratori. Il venditore è Finmeccanica, il cui principale azionista è ancora oggi lo Stato italiano, mentre i compratori sono società internazionali che contendono la preda al Fondo strategico italiano. La premessa è che sia nel caso di Avio che in quello di Ansaldo Energia (su cui pare si siano fatti avanti anche i coreani di Doosan) si è davanti ad aziende industriali non replicabili, che giocano in un campionato ristretto a poche unità nel continente europeo e da protagoniste nel mercato globale.

Si può creare o distruggere un settore finanziario in poco tempo “semplicemente” abbassando o alzando le tasse, ma le società industriali, soprattutto di certe dimensioni e in settori alla frontiera tecnologica, si creano in decenni e oggi, molto probabilmente, semplicemente non si creano più se non, forse, con una quantità spropositata di investimenti. I compratori in molti casi più che un certo utile e un certo margine operativo cercano l’accesso a una serie di competenze estremamente difficili, se non impossibili, da replicare.

Che certe aziende siano di importanza capitale per un’economia e un Paese che vogliono continuare a rimanere nel mondo sviluppato è quindi abbastanza ovvio. Così come è ovvio che ci siano preoccupazioni e interventi per salvaguardare un certo patrimonio e per farlo rimanere al servizio della crescita economica del Paese; questo è vero a prescindere da qualsiasi valutazione finale sull’opportunità o meno di una certa cessione, fatta a certe condizioni a certi compratori. È notizia di qualche settimana fa l’aiuto miliardario dello Stato francese a Peugeot; la Francia fino a prova contraria, è in Europa, nell’euro e confina con l’Italia.

L’ultimo tema è che lo spread è sempre stato ritenuto fondamentale per ripagare il debito e che nelle ultime settimane si è cominciato a parlare di crescita come presupposto necessario per uscire dalla crisi dei debiti sovrani. La crescita, però, come facilmente comprensibile, non è un’idea astratta, ma il prodotto anche di un tessuto industriale messo nelle condizioni di contribuire allo sviluppo economico. Le scelte di politica industriale, fiscale, regolamentare incidono sulla crescita presente e futura, in certi casi per decenni e quindi meritano di essere attentamente ponderate e non subite, tanto più sotto la pressione di compratori che hanno tutto l’interesse ad accelerare i processi. Questo è un tema centrale al di là delle singole vicende societarie.

Siamo abbastanza convinti che se le cose non dovessero andare in un certo verso leggeremo, in inglese, articoli sull’Italia protezionista e retrograda; non siamo abituati a tutti questi elogi e non riusciamo a toglierci qualche sospetto. Il sospetto che la fine economica dell’Italia (e con lei probabilmente di buona parte dell’Europa), nel contesto economico internazionale attuale sia un incubo per tanti e che certi commenti, sicuramente utili e piacevoli, non siano del tutto disinteressati.

Per certe scelte economiche e industriali meglio fare da soli ignorando eventualmente certi rimproveri e consigli, anche perchè, come il caso spread-austerity dimostra, le opinioni e le ricette cambiano e non necessariamente erano sempre quelle giuste.


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