Dicono che se l’aspettasse, che l’ottimismo dei giorni precedenti fosse già svanito martedì sera. Per Silvio Berlusconi la bocciatura del lodo Alfano (la legge che rinvia indagini e processi sulle quattro maggiori cariche istituzionali) è stata una sorpresa a metà. E la linea è stata subito chiara. Pochi minuti dopo che la Consulta ha comunicato il verdetto (emesso a maggioranza, 9 giudici costituzionali contro 6), Palazzo Chigi ha fatto sapere che nulla cambia nell’assetto politico in seguito a quella che pure viene definita «una sentenza politica» emessa da «una Corte di sinistra».
Dunque il governo non cade e Silvio Berlusconi va avanti fino alla fine della legislatura. I processi si riapriranno, e le eventuali condanne saranno gli ennesimi capitoli dell’interminabile persecuzione delle toghe rosse.
Non era un passaggio scontato; nei giorni scorsi qualcuno aveva ipotizzato un voto anticipato in primavera, magari abbinato alle regionali, che in caso di vittoria avrebbe consolidato la posizione del Cavaliere. Altri avevano invocato il ricorso alle piazze; l’ultimo è stato Umberto Bossi che proprio ieri mattina, prima di incontrare Fini, aveva detto: «Se la Consulta dovesse bocciare il lodo trascineremo il popolo».
Nulla di tutto questo. Berlusconi tira dritto perché la sua legittimazione deriva dal voto popolare, non da quello di 15 alti magistrati di nomina politica.
I sondaggi negli ultimi giorni registrano una stabilità nel consenso al premier, che non è stata scalfita dalle polemiche sulla vita privata e non si prevede vacillerà dopo il colpo di maglio della Consulta. Anzi, osserva un ministro che ha il polso degli umori popolari come il leghista Zaia, questa sentenza potrebbe rafforzare il governo. La gente sembra più scossa dai giudici che applicano condanne leggere agli stupratori piuttosto che da quelli che bocciano il lodo Alfano.
Il favore popolare conforta Berlusconi, ma non gli appiana certo ogni ostacolo. Per il premier la sentenza della Corte costituzionale segna la più grave sconfitta in questo anno e mezzo di governo. Nel suo entourage è diffusa la convinzione che si stia ricreando il clima dei primi anni Novanta che fece cadere la Prima Repubblica. L’offensiva giudiziaria va in crescendo: fallita la spallata a luci rosse con il caso Noemi-D’Addario, la potenza di fuoco è improvvisamente aumentata prima con il risarcimento record a favore di De Benedetti e ora con la stroncatura del lodo Alfano.
Stefania Craxi, che quella «caccia alle streghe» contro la coppia Dc-Psi la ricorda bene, ha parlato di «golpe strisciante» i cui protagonisti sarebbero «una magistratura schierata con l’appoggio di banchieri, grande industria e santoni del momento». Proprio ieri – non a caso – Luca di Montezemolo ha lanciato la sua fondazione "Italia Futura" con un parterre di ospiti tra cui Gianfranco Fini, Enrico Letta, Andrea Riccardi, industriali e finanzieri.
Il partito democratico, sfibrato di suo, non ha avuto la forza o il coraggio di chiedere le dimissioni di Berlusconi. Eppure sarebbe stata una rivendicazione legittima: Berlusconi aveva fortissimamente voluto il lodo Alfano, imponendola come una delle prime leggi votate da questo Parlamento. Parlare di dimissioni non sarebbe suonato troppo esagerato; invece questa opzione è stata lasciata alle urla dei dipietristi.
Pierluigi Bersani, probabile prossimo segretario del Pd, si è limitato a pretendere che «il presidente del Consiglio ora si sottoponga a giudizio». Lo stesso ha chiesto Nichi Vendola, l’erede di Fausto Bertinotti: sottomissione ai giudici.
Le parole dei leader della sinistra indicano con chiarezza qual è la loro vera, e al momento unica, strategia: non avendo la forza di opporre un’alternativa politica, perseguono la via giudiziaria. Come ai tempi di Occhetto.