Dalle larghe intese alle larghe contese: potrebbe essere questo lo slogan che descrive la piega presa dalla politica italiana nelle ultime settimane. Non è detto che sia una svolta irreversibile, ma al momento non si vede che cosa possa far cambiare la direzione presa dagli eventi.
I filosofi marxisti la chiamerebbero eterogenesi dei fini: uno mette in atto una serie di azioni per conseguire un certo obiettivo, raggiungendone tuttavia un altro, opposto. Le larghe intese sono frutto di una scelta politica di emergenza fatta dal presidente Giorgio Napolitano due anni fa, nel novembre 2011, con l’Italia sull’orlo del baratro finanziario: nella preoccupante incapacità del centrodestra di gestire la frana dell’economia, il capo dello Stato mise assieme le forze politiche più responsabili per affrontare il pericolo immediato, e dare a esse il tempo di raccogliere forze e idee in vista delle elezioni in calendario poco più di un anno dopo. La strada scelta per questo tentativo fu quella tecnica, non politica. Un tecnocrate, un professore bocconiano, un esperto di burocrazie e finanza fu incaricato, in virtù della sua competenza e dei solidi agganci tra i poteri forti, di traghettare il Paese nella burrasca.
Il governo tecnico per sua natura aveva una data di scadenza, come una mozzarella. Ma il segnale politico era chiaro: in un tornante drammatico della storia d’Italia, bisogna unirsi non dividersi. La politica provava a lanciare il messaggio dell’unità, a parlare il linguaggio del bene comune; tentava di non enfatizzare gli elementi di contrasto per puntare su ciò che costruisce. Il risultato elettorale dello scorso febbraio indicò che quella strada doveva essere proseguita in mancanza di alternative: il bipolarismo aveva ceduto il posto a un assetto tripolare con Pd-Sel, Pdl-Lega e 5 Stelle tra il 20 e 30 per cento. Un fatto senza precedenti nella storia italiana, se si pensa che il terzo partito dopo Dc e Pci, cioè il Psi nel massimo del fulgore, non toccò mai il 15 per cento dei voti.
Per governare, era dunque necessario che due dei tre maggiori partiti trovassero un accordo: e dato che i grillini si sono chiamati fuori da ogni responsabilità, Pd e Pdl (con Scelta civica) si sono trovati «condannati» a governare nuovamente insieme. Non più, però, dietro il paravento dell’emergenza «tecnica» ma con convinzione, con forza e coraggio, per ripetere al Paese quel messaggio di unità, di remi che mulinano nella stessa direzione, di impegno per il bene di tutti. Le larghe intese tecniche sono diventate, con il governo Letta, larghe intese politiche. Partiti lontani si sono avvicinati non più sotto la minaccia dello spread, ma per garantire agli italiani governabilità, riforme, stabilità, capacità di reagire alla crisi.
A fine ottobre il governo Letta ha compiuto sei mesi. Che fine ha fatto quell’iniziale unità di intenti, quel remare a tempo e nella stessa direzione? Il panorama politico non mostra che disgregazione. Scelta civica è in crisi. Il Pdl è sull’orlo di una scissione drammatica, e comunque Silvio Berlusconi appare sempre più tentato di rompere il patto per dare un appoggio esterno all’esecutivo. Il Pd annaspa tra aspiranti leader giovani ma privi di personalità, lontani in quasi tutto, preoccupati soltanto di conquistare con ogni mezzo (comprese la destabilizzazione degli attuali precari assetti, e censurabili operazioni di tesseramento) la guida del partito; né sono da escludere scissioni vista la crescente insofferenza della sinistra verso Letta e Renzi, ex democristiani. Il Movimento 5 Stelle perde parlamentari e credibilità, incapace di dare un senso di novità e affidabililtà alla propria massiccia presenza nelle Camere.
Il governo, che dovrebbe dare la spinta verso le riforme, annaspa nelle contrapposizioni crescenti tra i suoi maggiori azionisti. Dalle larghe intese alle larghe contese, appunto. I segnali e gli impegni di unità, di intenti comuni, di sforzi condivisi svaniscono a poco a poco proprio nelle forze politiche che dovrebbero incarnare per primi quegli ideali di cui il Paese continua a non poter fare a meno.