La fiducia è una cosa seria che si dà alle cose serie, diceva una vecchia pubblicità di Carosello. Il governo l’ha posta sulla legge elettorale, un tema sufficientemente serio. Ma forse la fiducia deliberata ieri dal Consiglio dei ministri sull’Italicum non è sufficientemente giustificata. I primi due voti espressi dalla Camera sull’Italicum nel pomeriggio erano segreti e hanno dato all’esecutivo una larga maggioranza: 384 e 385 voti. Un margine ampio, manifestato nel chiuso dell’urna (il voto segreto è il campo d’azione preferito dai franchi tiratori), che quasi sicuramente avrebbe messo l’Italicum al riparo dalle incursioni della minoranza Pd. Che pure ha votato a favore confidando che, con un gesto di buona volontà, il premier gli sarebbe venuto incontro. Niente defezioni: come dire che i “malpancisti” non intendevano affossare la riforma “tout court”.
Eppure Matteo Renzi ha posto ugualmente la fiducia, nonostante i confortanti margini di sicurezza. Perché questa prova di forza? Perché provocare, sia pure indirettamente, la gazzarra di ieri a Montecitorio, con gli insulti e le urla indirizzate alla presidenza e ai banchi del governo? Perché spingere l’opposizione interna sull’orlo della scissione dal Pd?
Senza dubbio c’e la volontà di evitare rischi. Ma la prudenza renziana, una dote finora oscurata dall’arroganza e dalla spavalderia del premier, non spiega tutto. C’è anche una componente strategica: il Parlamento oggi è più sfilacciato che mai, con gruppi che si formano e si sciolgono, migrazioni, cambi di casacca. È un Parlamento che lascia quasi solo il ministro degli Esteri a riferire sulla tragedia dell’immigrazione nel Mediterraneo. Con la sua mossa cinica, è come se Renzi dicesse: ora o mai più, bisogna approfittare di questo campo di battaglia sguarnito per colpire duro.
Eppure anche questa spiegazione non basta. C’è di più. C’è un premier che ha voluto impartire una lezione severissima alla minoranza interna. Anzi, una vera umiliazione. Un atto arrogante, appunto. Renzi non tollera che qualcuno possa tenergli testa troppo a lungo. Le minoranze interne al Pd avevano ripreso fiato dopo l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, un nome che Pierluigi Bersani si era intestato (faceva parte della sua rosa nel 2013) e che Renzi aveva proposto in nome dell’unità del Pd sacrificando il patto del Nazareno. Riconquistato un po’ di potere interno, i vari Cuperlo, Civati, Bindi eccetera pensavano di riuscire a piegare ancora il premier-segretario. Illusione. Renzi gli ha tirato uno schiaffo. La minoranza interna serve soltanto a puntellare le scelte del leader. Nessuna marcia indietro del premier, anzi avanti tutta.
Lo spettro della scissione si allunga. Tra i dissidenti appare tutta la vecchia “ditta”: Bersani, Letta, Speranza, Epifani, Cuperlo, Civati, Fassina, Bindi. Ma la componente più consistente della minoranza, quella di Area riformista, si è divisa tra gli irriducibili e i fedeli alla linea, quelli che “la fiducia non si può non votarla”. Alla fine i dissidenti non dovrebbero superare la trentina. E Renzi porterà a casa la legge elettorale e, al contempo, avrà messo a tacere le frange interne più irriducibili. I classici due piccioni.