TELECOM ITALIA/ Il “matrimonio forzato” pronto per Tim

- Zaccheo

Telecom Italia cambia nome e diventa Tim. Il destino dell'azienda sembra però segnato, dice ZACCHEO, nonostante le dichiarazioni di Giusepppe Recchi e Marco Patuano

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Forse non ci siamo capiti. I vertici di Telecom Italia continuano a rassicurare i mercati sulle alleanze che non faranno. Dovrebbero invece cercare di far capire loro quali alleanze ricercano. Perché più il tempo passa e più questa pur coraggiosa rivendicazione della sostenibilità del futuro autonomo di Telecom, “stand-alone” per dirla difficile, risulta irrealistica.

Approfittando dell’evento di lancio del marchio unico Tim, il tandem di testa di Telecom, il presidente Giuseppe Recchi e l’amministratore delegato Marco Patuano- del marchio in sé vale la pena parlare poi – hanno smentito le ultimissime voci su una fusione Tim-Brasil con Oi in Brasile e su contatti con Orange per un consolidamento in Europa. Benissimo. “La bandiera italiana sventola sui nostri tetti”, ha detto Recchi, con voluta enfasi, un po’ stridente con i suoi vent’anni impiegati (bene, peraltro) a lavorare per gli americani.

E invece, cosa vuol fare Telecom? Restare sola mentre tutti si sposano? Avendo alla guida dell’azionariato due gruppi francesi – Vivendi e Niel – con il 20% e il 15% ciascuno? E avendo una Orange, anch’essa francese ma “di Stato”, il che significa Oltralpe più forza, non meno forza, in manovra su scala continentale? Auguri.

Fanno bene a lavorare solo “sul proprio”, Recchi e Patuano. Hanno la leva finanziaria corta, basta a stento a pagare dei dividendi decenti e finanziare un po’ di investimenti sulla banda larga, ma non certo a sostenere un’espansione fatta “per linee esterne”, mediante acquisizioni. E, quindi, nell’inevitabile processo di aggregazione e concentrazione che il settore delle telecomunicazioni sta vivendo, la strada di Telecom è segnata: essere preda o marginalizzarsi, a dispetto delle dimensioni (70 milioni di clienti tra Italia e Brasile) e del know-how, perché è innegabile l’ottimo “track record” tecnologico e di ricerca del gruppo, che risale ancora ai tempi della proprietà pubblica.

La forte presenza di Vivendi nel capitale e l’attenzione collaterale dello speculatore Niel casuali non sono. Non è gente che vuol limitarsi a staccare le cedole. E ha soldi e appoggi sufficienti a perseguire con determinazione una strategia di crescita gradita o meno che sia. Del resto, la Francia pone alle spalle un “sistema Paese” che i suoi operatori privati utilizzano, l’Italia non ha alcun sistema Paese degno di questo nome in materia di politica industriale in genere e di politica delle telecomunicazioni in specie. Emblematica la “melina” incredibile fatta dagli ultimi governi, compreso quello in carica, sulla creazione della rete a banda larga attraverso Metroweb, tenuta e pendolare da anni tra un’ipotesi “statalista” di sviluppo e/o acquisizione di tutta la rete in fibra italiana, un’ipotesi di controllo condiviso e ipotesi ulteriori di cessione. Mentre giustamente Telecom faceva orecchie da mercante e ha sviluppato, come meglio ha potuto, la sua rete (o reticella: qui i giudizi degli esperti si dividono) in fibra.

Dunque l’ottimismo della volontà che anima Recchi, e anche Patuano li sostiene correttamente nel loro agire, ma il pessimismo della ragione, che ispira invece gli osservatori più attenti, porta a concludere che, nella migliore delle ipotesi, Telecom si sta “facendo bella” per qualche futuro matrimonio forzato con un colosso straniero, probabilmente francese.

Come va letto tutto questo rispetto al cambio di marchio commerciale, annunciato mercoledì, che sancisce come il logo “Tim” sostituisca da subito su tutti i prodotti e i servizi del gruppo la vecchia (mica tanto: ha solo vent’anni) insegna Telecom Italia? Non va letto in nessun modo. Il cambio di marchio è una mossa irrilevante sia ai fini commerciali che a quelli di comunicazione, è solo un pretesto per parlare di sé, un “facite ammuina” che non aggiunge e non toglie nulla ai clienti, né tantomeno all’azienda, la quale continuerà a chiamarsi e a essere chiamata Telecom Italia, così come la Fiat continua ad essere chiamata così in Italia e Chrysler negli Stati Uniti, malgrado in Borsa si chiami Fca.

Sono contorsioni mentali che periodicamente le aziende fanno – tutti ricordiamo il passaggio da Omnitel a Vodafone di molti anni fa. Talvolta sono scelte di risparmio: avere gli stessi “loghi” sulla pubblicità che si utilizza in tutti i Paesi, per una multinazionale è una mossa appunto risparmiosa. Ma Telecom non aveva questo problema: magari l’avesse.





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