Telecom Italia è ormai nelle mani di Vivendi. La rete telefonica, ad alta velocità o meno, è però ancora un asset che può rimanere nelle mani del Paese. ZACCHEO ci spiega come
L’articolo 702 del codice penale punisce “l’incauta custodia” delle armi. Questa fattispecie penale andrebbe, con gli opportuni adattamenti, applicata pari-pari a tutti coloro, governanti e banchieri, che – non li citiamo perché non essendo uomini di spirito probabilmente querelerebbero – dal 2007 in qua hanno lasciato Telecom Italia priva, appunto, di qualunque “custodia” contro la prospettiva che oggi si è concretizzata, cioè quella di essere controllata da un padrone straniero. Il che si è puntualmente verificato, senza alcuna regia da parte di nessuno, perché chiunque dovesse oggi dire, dalle parti di piazzetta Cuccia, che Bollorè ha fruito della consulenza o della copertura di Mediobanca nella scalata a Telecom millanterebbe. La verità, al contrario, è che Bollorè ha di fatto anche il controllo di Mediobanca: non nei numeri, ma nei muscoli.
Gli effetti di questa incuria del bene-Telecom si sommano all’imbelle incompetenza con la quale nello stesso decennio i governi – da quello di Prodi del 2006-2008 al successivo di Berlusconi, fino ai due “tecnici” di Monti e Letta e all’attuale, indefinibile, di Renzi – si sono gingillati con il tema della banda larga e dell’infrastrutturazione digitale di questo Paese.
Un tardivo riconoscimento del fatto che con il 2007 (cioè con l’estromissione per via mediatico-giudiziaria di Marco Tronchetti Provera da Telecom) si chiude la storia “autodiretta” dell’azienda e ne comincia un’altra amebiforme, priva di vere strategie, sotto il segno del nemico interno Telefonica e della sentinella cieca Mediobanca, lo ha firmato su “La Repubblica” un analista severo e indipendente come Alessandro Penati, ricordando qualche dato: “dieci anni fa, Telecom fatturava 29,9 miliardi, con un margine (…) del 22,8%. Nel 2015 il fatturato è sceso a 19,7 miliardi e il margine al 15% (…). Dieci anni fa la gestione operativa generava 9,9 miliardi di liquidità, che ne finanziavano 5,2 di investimenti; il resto serviva per pagare 2,6 miliardi di interessi sull’enorme debito accumulato e 2,3 di dividendi (…). L’anno scorso la liquidità della gestione operativa si era dimezzata a 5 miliardi, ma i necessari investimenti fissi sono rimasti quelli di dieci anni fa (5,2 miliardi), come pure gli interessi. Telecom è dunque come un ghiaccio che si scioglie lentamente…”.
A questo va aggiunto che Tronchetti voleva fare, ma gestendola e condividendo il potere, un’alleanza strategica con Murdoch che non gli permisero di fare, buttandolo fuori, e che sarebbe stata molto meglio di questa, forzosa e totalmente subita, con Vivendi.
Qualcuno ricorderà che nel maggio del 2010 Vodafone, Fastweb, Metroweb e Wind si coalizzarono nel chiedere al governo un “tavolo” di coordinamento degli investimenti sulla rete in fibra ottica che costringesse Telecom Italia a lavorare in squadra. Non successe assolutamente niente – cioè: il “tavolo” fu convocato, ma non produsse niente – e la Telecom di Bernabè continuò sulla sua strada isolata di (modesti) investimenti diretti, senza coordinamento.
E ancora: oggi lo Stato investe nella banda larga attraverso due strade. Una è quella di Metroweb, una bella azienda, media dimensionalmente, controllata dalla Cassa depositi e prestiti e da F2i; l’altra è quella dell’Enel, che sta investendo 3 miliardi per ricablare in fibra ottica la propria rete di contatori digitali. Ebbene, l’insipienza dei nostri governanti è tale da non riuscire a dettare un coordinamento non solo ai privati, ma neanche alle due aziende pubbliche che spendono sulla fibra! Guai a chiedersi com’è possibile: è possibile ben di peggio, nel vuoto totale di politica industriale del governo in carica. Eppure…
Eppure non tutto è perduto se solo Renzi e i suoi battessero un colpo, se si svegliassero e si rendessero conto di avere ancora nelle mani gli strumenti per rimettere al centro gli interessi pubblici nella realizzazione e gestione di una rete di telecomunicazioni a banda larga a controllo statale, come dev’essere per tutte le reti e come di fatto è per le altre in Italia, cioè quella elettrica e quella del gas, opportunatamente affidate al controllo pubblico.
Tutto questo, va detto, non perchè Vincent Bollorè – nuovo padrone di Telecom – sia un farabutto: certo, traendo il grosso dei suoi proventi dalla gestione della logistica portuale di molti scali in Africa non dev’essere un damerino, negli affari. Ma è un uomo intelligente e abile e di sicuro, se ha investito in Telecom, è per trarne profitto, mentre Telefonica, fin quando ha comandato sulla ex-Sip, l’ha fatto solo per tarparle le ali e avvantaggiarsene sui vari mercati in cui era concorrente, elevando insomma a scopo sociale il proprio conflitto d’interessi, con l’astensione dei consoci italiani Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo.
La ripresa d’iniziativa dello Stato sulle telecomunicazioni dovrebbe nascere dalla consapevolezza – blaterata a chiacchiere con tutte le bubbole governative sull’Agenzia per l’Italia digitale, ma finora mai tradotta in atti politici concreti – che la rete fissa a banda larga è davvero un’infrastruttura strategica, e come tale va tenuta agganciata all’unica sede istituzionale giusta per tutelare gli interessi collettivi, che è quella democratica e politica dello Stato.
Qualcuno ha invocato una Iri 3.0: bella formula, ma non serve arrivare a tanto. Basterebbe dare un’anima davvero strategica – compatibile con le regole europee – all’ordine sparso con cui ha finora agito la Cassa depositi e prestiti. I cui vertici peraltro sono appena stati rinominati da Renzi, e sono persone di spessore e capacità indiscusse: la Cassa potrebbe “mettere a sistema” gli sforzi di Metroweb ed Enel e anche, udite udite, sollevare Telecom dalla proprietà della rete internazionale di Telekom Sparkle e anche, eventualmente, dalla rete in fibra nazionale, pagandogliela bene come bene venne pagata all’Eni la rete del gas, e probabilmente in questo modo contribuendo anche a risolvere i problemi finanziari dell’ex Sip. La Cassa e i suoi vertici potrebbero farlo, ne hanno i soldi e la competenza: basterebbe dirgli cosa vuole da loro l’azionista-Stato.
Che però finora è rimasto, evidentemente, troppo distratto da banche e banchette di provincia nei cui disastri parenti e amici avevano lasciato le impronte digitali.
