Caro direttore,
Sono una docente dell’Istituto “Tirinnanzi” di Legnano e vorrei raccontare la mia esperienza per almeno due motivi: documentare il lavoro con i portatori di handicap presso la nostra scuola e confrontare i miei ultimi due anni alla scuola superiore (Liceo scientifico) con qualcuno che svolge lo stesso tipo di attività.
L’Istituto è costituito da una scuola primaria e da una scuola secondaria di 1° e 2° grado. Per prima è nata la scuola secondaria di 1° grado nel 1982 (ben 28 anni fa) che da subito ha accolto, in virtù degli ideali ispiratori, ragazzi con problemi comportamentali e di apprendimento. Man mano che il numero degli alunni e le sezioni aumentavano, cresceva anche il numero di disabili accolti, in buona parte a spese delle famiglie e con l’aiuto di maestre-volontarie. Sia come preside della scuola che come insegnante di lettere li ho seguiti da vicino un po’ tutti.
Dopo 15 anni ho lasciato l’incarico di preside per fare l’insegnante di sostegno a tempo pieno, organizzando all’interno della scuola un gruppo di lavoro molto affiatato che ha elaborato metodologie didattiche innovative, ottenendo risultati di assoluto rilievo sia in campo educativo che didattico, riconosciuti da tutti gli operatori coinvolti a vario titolo nel lavoro con i ragazzi (europsichiatri, psicologi, pedagogisti, familiari).
Ormai faccio l’insegnante di sostegno da 13 anni; come ultima tappa del mio lungo cammino educativo da cinque anni seguo I., una ragazza “autistica ad alto funzionamento”, come dice la diagnosi funzionale e, forse, con sindrome di Asperger, come sospetto io.
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Questa mia alunna ha frequentato prima le tre classi di scuola media ed ora è in seconda liceo scientifico. Io ho sempre potuto seguirla avendo l’abilitazione per le superiori oltre quella per le medie. Sua madre ha fatto la scelta del liceo perché si trovava nello stesso plesso della scuola media, conosceva la struttura e questo le dava una tranquillità interiore che altre opportunità, a suo parere, non le avrebbero offerto.
I. segue quasi sempre le lezioni in classe e svolge lo stesso programma dei compagni tranne per qualche facilitazione nelle materie scientifiche. La differenza sta nel metodo di lavoro e di studio proposti all’alunna ad eccezione delle aree di eccellenza: inglese, spagnolo e, per il momento, latino.
Io sono la mediatrice tra lei e la realtà, tra lei e i compagni o gli insegnanti perché I. ha grosse difficoltà di relazione e di reazione adeguata alle circostanze che le si presentano.
Partendo dalla considerazione che la persona è un valore unico e irripetibile, ho applicato al mio lavoro la filosofia educativo-comportamentale arricchita da altri metodi e strumenti come l’olismo, l’apprendimento cooperativo, l’ambiente scolastico strutturato, l’agenda giornaliera…
Tutto questo ha permesso un grande cambiamento del soggetto in questi 5 anni sia da un punto di vista comportamentale che di organizzazione e assimilazione dei contenuti proposti nelle varie discipline.
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I passaggi sono stati graduali nel tempo ma continui; ritengo, assieme alla sua neuropsichiatra, che il rapporto educativo costante abbia permesso, attraverso un’affezione e un unico punto di riferimento, questi progressi.
Quello sopra esposto è il quadro generale, volentieri scenderei nei particolari (dal PEI, alla parcellizzazione del metodo, agli strumenti, ecc) con chi fosse interessato ad un confronto.
Finora io ho seguito parecchi corsi presso centri specializzati in questo tipo di handicap ma poi i tentativi per fare emergere tutto quello che I. ha dentro come ricchezza e può fare, sono stati prevalentemente miei: una compagnia nell’opera sicuramente renderebbe più incisiva l’opera stessa.
(Mara Braicovich)