«Il mondo delle imprese italiane non è un monolite, bensì una realtà molto diversa da settore a settore. Mentre macchinari e prodotti energetici e chimici continuano ad andare bene, manca del tutto l’elettronica di consumo e il tessile è in difficoltà». Lo afferma Francesco Daveri, professore di Scenari economici all’Università Cattolica di Piacenza. Secondo i dati diffusi mercoledì dall’Istat, a novembre la produzione industriale dell’Italia è diminuita dello 0,5% rispetto a ottobre, mentre è aumentata dello 0,9% rispetto a novembre 2014. Secondo le stime, tra novembre 2014 e novembre 2015 la produzione industriale sarebbe dovuta crescere del 2,5%. Nel frattempo la Germania ha chiuso il 2015 con un Pil al +1,7%, contro le attese del +1,6%. A luglio il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, aveva detto che l’obiettivo dell’Italia era superare la Germania.
Che cosa manca all’Italia per raggiungere la Germania?
In parte all’Italia converrebbe un rallentamento della Germania, e io mi aspetto che questo si verifichi nei prossimi mesi. Le imprese tedesche sono quelle che esportano di più in Asia, e la Cina sta rallentando. D’altra parte i dati sulla produzione industriale negli ultimi mesi registrano una mancata diffusione ad ampio spettro della ripresa. Quest’ultima, trainata da beni durevoli e settore automobilistico, dovrebbe ampliarsi. I consumi sono ripartiti, ma sono soddisfatti più con importazioni che con prodotti del Made in Italy.
Significa che le nostre imprese non sono competitive?
Esiste un sottoinsieme delle nostre imprese che sono molto competitive, e che sono leader in settori o nicchie dell’economia. Il Made in Italy nel suo complesso fa invece più fatica a lasciarsi alle spalle la crisi degli ultimi anni. Nel dato medio dell’Istat vediamo il segno della crescente differenziazione di risultati tra il sottoinsieme delle imprese che vanno bene, pari a circa un terzo, le imprese che continuano ad andare male, un altro terzo, e la parte centrale con una produzione stagnante o che cresce molto poco.
Quindi i dati medi non sono rappresentativi della realtà economica del nostro Paese?
Il risultato complessivo di questi andamenti ci porta ai dati che vediamo. Il -0,5% congiunturale e la dinamica tendenziale inferiore alle attese non sono il risultato del fatto che tutte le imprese sono andate peggio. Quello che è emerso nei mesi precedenti è il combinato di un terzo di aziende che fanno bene o benissimo, e di due terzi che invece vanno male o comunque si limitano a sopravvivere.
Che cosa fa la differenza tra queste imprese?
Ci sono dinamiche settoriali positive e altre meno positive. Alcuni settori sono esposti alla concorrenza dei Paesi emergenti o dell’Europa orientale, e dunque fanno meno bene dal punto di vista della produzione industriale. Questo non necessariamente si traduce in un ambiente negativo dal punto di vista dei bilanci, perché in alcuni casi le imprese italiane delocalizzano la produzione.
Quali sono i settori che vanno peggio?
Da anni le imprese italiane non sono presenti nel settore dell’elettronica di consumo, e questo si traduce anche in un minor indotto. Nel tessile e nell’abbigliamento le imprese si diversificano tra quelle che ce la fanno, perché si diversificano e vanno a produrre altrove. I produttori tradizionali invece soffrono la concorrenza dei Paesi a più basso costo, perché i prezzi di produzione di capi standard nel nostro Paese sono troppo alti.
E i settori che vanno meglio?
I settori che vanno meglio sono invece quelli legati alle macchine per l’imballaggio e più in generale ai macchinari. Lo stesso vale per la raffinazione dei prodotti energetici e chimici.
Che cosa frena le nostre imprese a livello di sistema Paese?
Il peso della tassazione continua a essere molto consistente. Scontiamo inoltre una giustizia civile troppo lenta nonché un’insufficiente efficienza della pubblica amministrazione, tutti fattori che disincentivano la crescita dell’impresa. Gli stessi adempimenti fiscali sono più onerosi per le piccole imprese che non per quelle grandi.
(Pietro Vernizzi)