Ci sono stati altri vertici cruciali, prima di quello in Alaska tra Putin e Trump, che sono stati considerati falliti, ma non certo inutili
Alle spalle di Donald Trump e Vladimir Putin, l’altra sera in Alaska, si leggeva “Pursuing Peace”. Un claim vagamente volenteroso ma basicamente realista. Neppure i due leader – al di là dei preannunci della vigilia – erano davvero convinti che il summit di Ferragosto avrebbe partorito almeno un cessate il fuoco in Ucraina. Tutte le conferenze internazionali “cercano la pace”, ma raramente la trovano un venerdì sera dopo due anni di pandemia e tre anni di guerra. Nessuna pace nel mondo può scoppiare in prime time tv, con un occhio alla riapertura dei mercati.
È impossibile anche affermare in tempo reale – e spesso anche molto dopo – quando un summit è stato un successo o un fallimento. Quasi sempre è un po’ l’uno e un po’ l’altro. Spesso è un successo per il fatto di essersi tenuto, indipendentemente dall’esito immediato e pubblico. Quasi sempre i contenuti reali (o le premesse di futuri contenuti) non vengono comunicati, spesso non vengono subito elaborati nemmeno dagli stessi protagonisti.
Henry Kissinger vinse il Nobel per la Pace per gli accordi di Parigi del 1973 sul Vietnam, non per essere stato l’anno prima il mastermind del viaggio di Richard Nixon a Pechino. Già nel 1975, tuttavia, gli Usa fuggivano da Saigon, mentre Kissinger resterà nei libri di storia per aver tratto la Cina nella modernità, trasformando una pericolosa “guerra” ideologica a traiettoria militare in competizione geoeconomica, dopo mezzo secolo ancora funzionante. Senza invasioni di Taiwan, almeno finora.
Nel luglio del 1945 le tre potenze che avevano appena battuto Hitler si ritrovarono a Potsdam, alla periferia di Berlino, distrutta e smembrata in quattro. I 3+1 (con la Francia) avrebbero dovuto certificare la fine della guerra in Europa e l’inizio di un dopoguerra ancora concertato. Ma appena ottanta giorni dopo il VE-Day era già cambiato tutto. I due leader occidentali vincitori della guerra – Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill – non erano più al tavolo del fine-guerra. Rimasero però loro i grandi decisori di Yalta: dove sei mesi prima, a guerra ancora in corso, era stata disegnata la mappa geopolitica del dopoguerra (da Usa e Urss, con la Gran Bretagna già decaduta).
E quella mappa a Potsdam rimase scolpita sulla pelle del pianeta e vi rimase poi per quasi mezzo secolo. Eppure nel febbraio del 1945 il cessate il fuoco sembrava ancora lontano: gli angloamericani erano ancora scossi militarmente dalla controffensiva nazista sulle Ardenne e al Pentagono pianificavano per novembre l’invasione del Giappone. Pochi avrebbero scommesso che la Germania fosse agli ultimi e che in autunno le armi fossero state silenti già da settimane anche sul Pacifico. Forse anche per questo a Potsdam non fu celebrata una vera “pace”: che non era preventivata, e che non era in fondo tale nemmeno nelle decisioni di Yalta.
A Potsdam la vera svolta non fu dunque la fine della guerra, ma la “continuazione della guerra con altri mezzi”: sebbene con preponderanti connotati della pace, certamente in Europa; e in un nuovo contesto di stabilità mondiale. Fu Harry Truman a comunicare a Stalin una grossa novità, tutt’altro che pacifica: da una decina di giorni gli Usa disponevano della bomba atomica. Una settimana dopo la bomba fu sganciata su Hiroshima, due giorni dopo l’Urss dichiarò guerra al Giappone, il giorno dopo fu annientata anche Nagasaki, sei giorni ancora e – nel Ferragosto di ottant’anni fa – Tokyo si arrendeva.
La guerra nata in Europa e divenuta caldissima su scala planetaria veniva subito riavviata in modalità “fredda”. Con l’Europa – con la Germania – come epicentro simbolico tagliato in due dalla cortina di ferro. E con l’Asia teatro strategico destinato a diventare prioritario per gli Usa.
Quarant’anni anni dopo la situazione non era cambiata: pur attraverso una serie infinita di summit alternati con la costruzione del Muro a Berlino, con la crisi di Cuba, con l’invasione sovietica dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, con le guerre di Corea, Vietnam e Afghanistan, con continui rivolgimenti in Medio Oriente. Nella città artica di Rejkyavik il Presidente americano e il leader sovietico in carica s’incontrarono nel 1986 nel tentativo di mettere la parola fine alla confrontation nucleare che attanagliava il globo, per abbozzare un nuovo ordine. Ma un vertice stracarico di aspettative, sotto un ombrello mediatico planetario, “fallì”, non produsse alcun “accordo”: lo dissero per primi Ronald Reagan e Michail Gorbacev.
Eppure segnalò che una svolta storica era dietro l’angolo: fra l’autunno 1989 e quello 1991 tutto cambiò – a cominciare in Europa dalla riunificazione tedesca – e senza “guerra mondiale” (anche se il crollo dell’Urss coincise con Guerra del Golfo, il primo sommovimento bellico di una nuova era dopo il secolo breve e terribile fra il 1914 e il 1989). Quell’era è ancora in corso, anche se la pandemia e le guerre in Ucraina e a Gaza ne hanno già decretato una soluzione di continuità. Una “pars destruens” che manca ancora di ricostruzione.
Alaska 2025 – che mirava aa riaprire il cantiere geopolitico – è fallito, dicono senza virgolette i media di tutto il pianeta. E Trump sarebbe lo sconfitto del giorno. Non vi sono dubbi che il vertice sia stato convocato dal Presidente americano, che anela al Nobel per la Pace dopo aver affermato in campagna elettorale che avrebbe fermato la guerra in Ucraina il suo primo giorno alla Casa Bianca. Il 16 agosto, invece all’orizzonte continua a non contemplare neppure una tregua parziale fra Mosca e Kiev: nemmeno avvicinabile a quella fasulla strappata da Trump al governo israeliano dopo l’Inauguration Day.
Alcuni fatti attendono nel frattempo di essere sviluppati, prima ancora che letti in modo istantaneo.
Il primo fatto – forse il più importante – è lo svolgimento stesso del summit. Alaska 2025 poteva non essere concepita da Trump o poteva essere rifiutata da Putin. Invece i due si sono stretti la mano e hanno tenuto una conferenza stampa congiunta (a Rejkyavik non ci fu). Hanno comunicato – in gergo diplomatico – un agree-to-disagree, di “essere d’accordo nel non essere – ancora – d’accordo”.
Il predecessore di Trump tre anni fa volò in Polonia – sul “fronte russo” – attaccando Putin come “macellaio”. Trump ha discusso per tre ore con Putin di fine della guerra e di altri aspetti di un nuovo ordine. Il fatto in sé – al momento – è che entrambi si riconoscono reciprocamente come interlocutori. Prima della fine dell’anno un svolta analoga è annunciata fra Trump e il leader cinese Xi. Il nuovo ordine – visto dalla Casa Bianca – accenna a prendere forma in questo triangolo: per quanto non chiuso né alla Ue, né all’India, né al Giappone, né a Israele o all’Arabia Saudita, né a qualunque soggetto sia utile/disponibile a “deal” utili.
Dazi o cessate il fuoco, nuova deterrenza nucleare o “scambi”: di territori, accessi a risorse strategiche, perfino popoli. Sul tavolo non c’è solo il Donbass: c’è anche – per una parte di palestinesi che Israele vuole “ricollocare” – l’ipotesi di qualche Paese centrale dell’Africa come l’Uganda. Confinante con il Ruanda, dove il premier britannico Boris Johnson voleva “ricollocare” migranti mediterranei giunti fino alla Manica.
Il “mancato accordo” sul cessate il fuoco in Ucraina non sembra in realtà completamente vuoto di contenuti. Trump e Putin paiono essersi trovati d’accordo sul fatto che il conflitto fra Russia e Ucraina è e resta un conflitto fra due Paesi, non una “guerra mondiale”. Sono quindi certamente Mosca e Kiev i responsabili ultimi della loro guerra (fra l’altro già iniziata nel 2012 e fermata nel 2014 da un accordo diplomatico siglato a Minsk).
Il ruolo degli Usa di Trump pare uscirne una volta di più diverso da quello degli Usa di Biden: che non fecero nulla per fermare lo showdown militare in Ucraina (Trump invece mostra di volerlo arrestare) e ordinarono subito l’intervento della Nato a supporto di Kiev, con l’Ue in ruolo gregario.
Da Anchorage sembra partire oggi un input nettamente differente: è l’Europa che – come e con l’Ucraina – deve assumersi la responsabilità di fissare obiettivi e predisporre mezzi propri, nel breve e medio termine, di fronte a una guerra scoppiata tre anni fa in Europa. E che in Europa (a cominciare da Francia e Gran Bertagna) c’è chi vorrebbe continuasse “fino alla sconfitta definitiva” di Putin.
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