Negli Stati Uniti l'inflazione a luglio è rimasta ferma al 2,7%: una buona notizia per gli investitori che attendono un taglio dei tassi della Fed
L’inflazione americana a luglio è rimasta ferma al 2,7% del mese precedente “battendo” le attese di un incremento dei prezzi del 2,8%; al netto delle componenti più volatili, energia e alimentari, il dato è salito al 3,1% dal 2,9% di giugno, superando le attese del 3,0%.
La novità nei numeri comunicati ieri è la ripartenza dell’inflazione dei servizi emersa, per esempio, nei prezzi dei biglietti aerei, nei servizi medici e in quelli ricreativi. Al contrario i timori su una salita dei prezzi dei beni dopo l’introduzione dei dazi sono stati ridimensionati con prezzi in discesa sia per le auto usate che per gli elettrodomestici.
Questo andamento è frutto di più fattori. In parte gli aumenti dei prezzi sono già arrivati nei mesi scorsi, in parte le imprese hanno deciso di assorbire, almeno in una certa misura, gli aumenti nei propri margini limitando l’impatto sui prezzi finali; i consumatori hanno infine rimandato gli acquisti contribuendo a calmierare i prezzi.
I principali indici azionari americani hanno reagito al dato raggiungendo nuovi massimi. L’unica fase di volatilità degli ultimi mesi, quella successiva al primo annuncio dei tagli, ha coinciso con una risalita dei rendimenti delle obbligazioni governative; allora i mercati scontavano la possibilità di una nuova fiammata inflattiva come conseguenza dei dazi di Trump. Se l’inflazione sale, infatti, i tassi non possono scendere e gli investitori chiedono rendimenti più alti per comprare le obbligazioni governative. In caso contrario si può continuare a incorporare uno scenario espansivo.
Non ci sono fiammate inflattive, ma i prezzi continuano a salire a ritmi superiori all’obiettivo della Fed del 2%. Si consolida quindi la convinzione che la Fed abbia implicitamente allargato la banda e che sia più disponibile a tollerare un’inflazione più alta nel lungo periodo e questo spiega in parte l’euforia dei mercati.
Le probabilità di un taglio dei tassi della Fed a settembre, ieri mattina già oltre l’80%, sono salite ulteriormente; gli investitori oggi scontano con una probabilità superiore al 95% una riduzione dei tassi alla prossima riunione. La possibilità di un terzo taglio prima della fine dell’anno è salita da poco più del 20% di lunedì a oltre il 40%.
Il timore degli investitori continua a essere un’altra fiammata inflattiva, dopo quella del 2021/2022, che impedisca un ciclo di espansione monetaria e che metta sotto pressione il mercato dei debiti sovrani e quelli azionari. Il dato di ieri, da questo punto di vista, è stato sicuramente positivo.
Non fa invece più notizia l’immancabile reazione del Presidente americano Trump che ieri pomeriggio è tornato ad attaccare dai social il Presidente della Fed Powell. Oltre alle solite accuse contro un Presidente reo di essere “sempre in ritardo”, Trump è tornato a minacciare una causa legale contro Powell per i costi di ristrutturazione della sede della Fed. Sarebbe questa la via per ottenere un cambio al vertice della banca centrale prima della scadenza naturale prevista per maggio 2026. Il prossimo Presidente, nella visione di Trump, dovrà tagliare i tassi per far risparmiare al Tesoro americano la spesa per interessi.
In assenza di fiammate inflattive questa polemica è destinata a continuare mentre i mercati, per ora, continuano a salire senza preoccuparsi troppo della futura indipendenza della banca centrale.
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