Il licenziamento di un sindacalista che lede la reputazione della sua azienda su Facebook è legittimo. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 35922 depositata nei giorni scorsi, che stabilisce come i limiti al diritto di critica si applichino anche al lavoratore rappresentante sindacale. Di conseguenza, la qualifica di sindacalista non “salva” il dipendente dal licenziamento se ha proferito espressioni lesive della reputazione dell’azienda pubblicate sul suo profilo Facebook aperto. Nel provvedimento disciplinare si contestavano i commenti presenti sui social media, ritenuti “gravemente lesivi dell’immagine e del prestigio dell’azienda nonché dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili“.
In alcuni di questi commenti social c’erano espressioni del tipo “si informano tutti i gentili colleghi… che, qualora si voglia aderire e iscriversi alla Filt Cgil perché trattati come stracci…” o “Il vecchio oggi di prima mattina va a caccia dei suoi autisti che si sono iscritti al sindacato per fargli le solite minacce o false promesse“. Ma vengono citati anche commenti del tipo “come mai questi hanno tutta questa fo**uta paura che la gente si iscrive? Io personalmente l’unica risposta che mi riesco a dare è che hanno qualcosa da nascondere e non sono puliti” e “sto vecchio di mer*a sempre a rompere i coglioni alla gente il sabato mattina, ma andasse a fare un giro in montagna…“. Per questo l’azienda ha deciso di procedere con licenziamento, avendo rilevato che “i fatti contestati e ritenuti addebitabili al dipendente, a titolo di dolo o di negligenza grave e ingiustificabile, travalicassero ogni limite di critica e di satira e impedissero la prosecuzione del rapporto di lavoro“.
“I LIMITI AL DIRITTO DI CRITICA SI APPLICANO ANCHE AL LAVORATORE SINDACALISTA”
Dopo aver proposto ricorso, il dipendente licenziato ha spiegato di essere vittima di un “licenziamento discriminatorio per ragioni di appartenenza sindacale” e che fosse stata esclusa “la scriminante del diritto di critica“. Riguardo quest’ultimo aspetto, la Corte di Cassazione, come riportato dal Sole 24 Ore, ha rimarcato che è “garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro […] ma ciò non consente di ledere sul piano morale l’immagine del proprio datore di lavoro con riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati“, in quanto “il principio della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. incontra i limiti posti dell’ordinamento a tutela dei diritti e delle libertà altrui e deve essere coordinato con altri interessi degni di pari tutela costituzionale“.
Per quanto concerne invece il primo aspetto, la Cassazione ha ricordato che i limiti al diritto di critica si applicano anche al lavoratore rappresentante sindacale, il quale riveste una duplice veste, quella di lavoratore, quindi “soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti“, e di sindacalista, attività per la quale “si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall’art. 39 Cost., in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi“. I giudici della Suprema Corte hanno concluso che il licenziamento si è tenuto ai principi di diritto richiamati ed ha escluso che si trattasse di diritto di critica, visto che le espressioni usate su Facebook erano “intrise di assai sgradevole volgarità“, prive di ogni seria finalità divulgativa e finalizzate solo “a ledere il decoro e la reputazione dell’azienda e del suo fondatore“.