ISRAELE/ “Ecco perché le proteste e l’altolà degli Usa su Rafah lasciano Netanyahu al suo posto”

- int. Filippo Landi

Manifestazioni, Biden che boccia l'attacco a Rafah, l'intelligence che non funziona: tutto sembra giocare contro Netanyahu. Ma il governo non cadrà

Netanyahu con l'esercito Guerra a Gaza: il Premier israeliano Benjamin Netanyahu con l'esercito (Twitter Netanyahu, 2023)

Netanyahu sembra sulla graticola: Biden boccia l’operazione a Rafah e i manifestanti ne chiedono a gran voce le dimissioni, ma la fine del suo governo è di là da venire. Il primo ministro ha dovuto incassare il no della Casa Bianca all’operazione di terra, così come l’indagine della CIA sul battaglione dell’IDF Netzah Yehuda, formato da ultraortodossi, per aver violato i diritti umani durante la sua attività, senza dimenticare le accuse in patria di aver messo in secondo piano la sicurezza di Israele per perseguire l’obiettivo di rafforzare la presenza in Cisgiordania, creando le condizioni per l’attacco di Hamas che ha dato origine alla guerra.

Nonostante questo, spiega Filippo Landi, già corrispondente Rai da Gerusalemme e poi inviato del Tg1 Esteri, la fine di Netanyahu non è ancora dietro l’angolo: il comportamento degli Stati Uniti, che hanno bocciato il piano per Rafah ritenendo che non si possa procedere a un’operazione militare senza mettere in pericolo i civili, rimane ambiguo. Non per niente sono stati appena approvati altri miliardi di aiuti militari per Israele. Il premier vacillerà se l’azione americana diventerà più decisa o se dovesse venire incriminato per crimini di guerra.

In Israele continuano le manifestazioni contro Netanyahu per chiedere le dimissioni del suo governo. L’esecutivo di unità nazionale può rimanere indifferente?

Le manifestazioni sono legate anche a quello che accade fuori dal Paese. C’è stata una presa di posizione che dà un colpo alla strategia di Netanyahu e può rafforzare le pressioni per ottenere il cessate il fuoco e lo scambio tra prigionieri palestinesi e ostaggi israeliani: mi riferisco alla netta dichiarazione del portavoce del Dipartimento di Stato secondo cui non si può attaccare Rafah senza avere la certezza che i palestinesi possano rientrare all’interno di Gaza, nelle loro case, per cercare di ricostruirle. Il portavoce Miller ha messo in luce anche un secondo elemento: a giudizio degli Stati Uniti, delle forze armate americane, oltre che dello staff di Biden non esiste una via che permetta a un milione e 400mila palestinesi di mettersi in salvo durante un eventuale attacco dell’IDF.

Perché queste dichiarazioni influiscono sulla politica interna?

Netanyahu e i ministri della destra israeliana hanno sempre detto che bisogna completare le operazioni militari anche per liberare gli ostaggi, viceversa i familiari delle persone rapite sostengono che solo il cessate il fuoco può permetterne la liberazione. L’amministrazione Biden per calcolo politico ed elettorale, ma anche per sintonia con una parte della popolazione israeliana, ha scelto in modo molto netto di opporsi a un’operazione a Rafah.

Lo scambio tra l’attacco blando all’Iran e il via libera per Rafah, quindi, è un’ipotesi interpretativa che non tiene più?

L’ipotesi di uno scambio di questo tipo è stata avanzata da molte fonti: è realistico pensare che sia entrata nelle discussioni tra lo staff di Biden, Blinken e Netanyahu. È altrettanto evidente che nell’amministrazione Biden sta maturando una presa di posizione più netta riguardo all’attacco terrestre. Per una serie di motivi, anche per le manifestazioni dell’opinione pubblica israeliana.

Biden risente pure delle innumerevoli manifestazioni filo-palestinesi nelle università americane, nelle quali sono stati arrestati molti giovani?

Esattamente. Insieme agli studenti è stato arrestato uno dei docenti della Columbia University e uno dei più grandi scrittori di origine irachena che vive a New York, Sinan Antoon. La protesta non è più solo degli studenti: una parte dei docenti non assiste passivamente. Quello che sta succedendo a New York è sotto la lente di ingrandimento dello staff presidenziale.

L’anima delle manifestazioni in Israele sono i familiari degli ostaggi, ma chi altro fa parte del movimento che alimenta questa protesta? Tra i partecipanti c’è stato anche l’ex capo del Mossad Danny Yatom: vuol dire che anche una parte delle istituzioni non vuole più Netanyahu?

Sì, è quella parte delle istituzioni che era scesa in strada insieme agli oppositori di Netanyahu prima dell’approvazione della legge di riforma del sistema giudiziario. Contestano al governo di centrodestra, quindi al premier ma anche a Smotrich come viceministro della Difesa e governatore dei territori palestinesi e a Ben Gvir, come ministro della Sicurezza interna, di aver messo in pericolo la sicurezza di Israele per rafforzare il controllo politico e militare di Israele sulla Cisgiordania.

Qual è il motivo delle critiche?

Si contesta, ancora prima del 7 ottobre, il perseguimento di un obiettivo sionista e nazionalista che stava già mettendo in crisi lo status quo della West Bank. Un approccio ideologico che ha distolto l’attenzione da Gaza e da ogni ipotesi di trattativa politica ridicolizzando l’ANP e togliendole l’ultimo briciolo di autorevolezza che aveva.

Il mito dei servizi segreti israeliani e delle loro capacità di previsione è crollato per questo? Si è data attenzione alla Cisgiordania dimenticandosi di quello che poteva succedere a Gaza?

In questo contesto va considerato il numero altissimo di detenuti palestinesi morti per le torture subite in carcere. Denota una risposta rabbiosa dei servizi di sicurezza israeliani, incapaci di avere quelle notizie che non riescono più a ottenere per altre vie. Un segno della loro debolezza, di enorme carenza della capacità informativa. Le dimissioni del capo dell’intelligence militare Aharon Haliva hanno sanzionato un problema che si era già creato prima del 7 ottobre.

Le proteste e questo cambio di posizione di Biden possono far cadere il governo?

Che Netanyahu possa cadere è più un auspicio dell’Occidente che dalla maggioranza degli israeliani, che comunque hanno votato per una coalizione di centrodestra: non credo che ci saranno le dimissioni del primo ministro, né una crisi di governo. Penso che la tradizionale e pragmatica abilità politica di Netanyahu lo porterà a riflettere sui messaggi che giungono dagli USA, che d’altra parte non sono sempre messaggi univoci. Alle richieste di una risposta contenuta all’Iran e alle dichiarazioni sull’impossibilità di intervenire a Rafah si affianca la decisione del Congresso di inviare altri 12 miliardi di dollari di aiuti militari.

Il governo rinuncerà a Rafah? O cambierà le modalità di intervento in quell’area?

No, i piani andranno avanti, così come i bombardamenti, a fronte della scoperta quotidiana di fosse comuni negli ospedali a Gaza e Khan Yunis. Tutto andrà avanti fino a quando non sarà più chiara la determinazione americana e anche europea. A meno che non entri in gioco un’altra variabile.

Quale?

Si parla della possibilità di una incriminazione di Netanyahu per crimini di guerra, insieme ai vertici di Hamas, da parte del Tribunale internazionale dell’Aja. Sarebbe una variabile importante, così come si sta dimostrando in queste ore la variabile dell’incriminazione del battaglione IDF formato da soldati ultraortodossi, messi sotto accusa dai servizi segreti americani. Netanyahu ha detto: “Noi siamo vigili e capaci di incriminare i nostri soldati se sbagliano”. Ed è interessante che in questa situazione si sia ritenuto di esporsi pubblicamente per dire che si può intervenire sui militari. Questo a distanza di 48 ore dalle affermazioni di Netanyahu, Gallant e Gantz che all’uscita della notizia delle indagini della CIA avevano dichiarato che si trattava di un errore.

Come mai hanno cambiato idea?

Si sapeva che erano state compiute atrocità, quello che è cambiato è che l’indagine della CIA è stata fatta propria dallo staff presidenziale di Biden, cui risponde direttamente la CIA. Hanno capito che l’incriminazione degli ufficiali di questo battaglione avrebbe provocato un contraccolpo enorme.

(Paolo Rossetti)

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