Nonostante le numerose prove riguardo l’inutilità dell’ivermectina nella cura del Covid, questo farmaco antiparassitario torna a far parlare di sé. Nelle chat no vax sta circolando, infatti, uno studio condotto in Brasile e pubblicato sulla rivista di medicina generale Cureus, ad accesso aperto e finita negli anni passati nel mirino della comunità scientifica per le sue revisioni “flash”. Stando al lavoro svolto dal team di ricercatori brasiliani guidato dall’endocrinologo Flávio A. Cadegiani, l’ivermectina riduce del 92% il rischio di morte per Covid. Questo studio, che ha coinvolto 88.012 persone della città di Itajaí in Brasile, riporta che coloro che hanno usato l’ivermectina come profilassi o prima di essere infettati dal coronavirus hanno sperimentato riduzioni significative del rischio di morte e ricovero in ospedale.
In particolare, per coloro che assumevano regolarmente ivermectina è stata registrata una riduzione del 92% del rischio di morte per Covid rispetto ai non utilizzatori, dell’84% rispetto ai consumatori irregolari. “Il tasso di ospedalizzazione è stato ridotto del 100% negli utenti regolari rispetto sia agli utenti irregolari che ai non utenti”, scrivono i ricercatori. I consumatori regolari erano soprattutto anziani e persone con una maggiore prevalenza di diabete di tipo 2 e ipertensione rispetto ai consumatori irregolari e non. Inoltre, sono stati definiti così perché hanno assunto oltre 30 compresse di ivermectina in cinque mesi. Il dosaggio di ivermectina è stato determinato dal peso corporeo, ma “la maggior parte della popolazione ha utilizzato da due a tre compresse al giorno per due giorni, ogni 15 giorni”.
DUBBI E SOSPETTI SU STUDIO SU IVERMECTINA
Ma gli esperti del settore hanno criticato i lavori svolti da questo gruppo di ricercatori in quanto presentavano difetti critici riguardanti la metodologia, oltre a segnalare l’incompletezza dei dati. Due autori dello studio, come riportato da PolitiFact, sono poi membri del Front Line Covid-19 Critical Care Alliance, chiamato anche FLCCC, che sostiene l’uso dell’ivermectina nel trattamento del Covid. Ad esempio, gli esperti li hanno attaccati sottolineando non vi fossero prove del fatto che chi ha assunto l’ivermectina lo abbia veramente fatto. Peraltro, l’epidemiologo Gideon Meyerowitz-Katz fece notare che non vi sono informazioni sui partecipanti allo studio, chi stava già assumendo l’ivermectina prima dell’inizio dello studio e quanti avevano continuato a prendere le dosi complete del farmaco. Gli stessi ricercatori avevano riconosciuto l’incertezza sul regime farmacologico nella sezione ‘discussione’ della pubblicazione. Anche il dottor Flávio A. Cadegiani, autore corrispondente dello studio, aveva affrontato la questione in un’e-mail a PolitiFact, sostenendo che i risultati sarebbero stati ancora migliori in uno studio controllato se tutti gli utenti avessero assunto il farmaco regolarmente.
I RICERCATORI NEL MIRINO…
Ma Flávio A. Cadegiani ha difeso la metodologia dello studio. “I limiti dello studio sono quelli inerenti a qualsiasi studio osservazionale e popolazionale”. Inoltre, affermò di aver usato un metodo chiamato propensity score matching “per aumentare il livello di certezza dei risultati”. Cadegiani disse che oltre a mostrare risultati positivi per l’ivermectina, lo studio afferma esplicitamente che “nulla sostituisce i vaccini”. Infine, riguardo l’efficacia dell’invermectina, neppure Cadegiani si mostrò sicuro: “Il nostro lavoro era quello di verificare se in quella popolazione l’ivermectina fosse efficace o meno, in termini di protezione dall’infezione da COVID-19, di ospedalizzazioni o di decessi. Almeno da quello che abbiamo ricevuto, sembrava funzionare. E io non ci credevo affatto. Ora, il concetto di ‘provato’ è scientificamente difficile da dire – manca persino una definizione precisa. Non ho mai detto che sia stato dimostrato da nessuna parte. Il modo in cui la gente interpreta e sostiene, non è sotto il mio controllo”. Emerse un’altra questione di non poco conto, secondo quanto riportato da PolitiFact, che citava gli esperti Wada e Meyerowitz-Katz. Sottolinearono potenziali conflitti di interesse degli autori dello studio. Notarono infatti che, sebbene la versione prestampata dello studio precedente menzionasse che due dei suoi autori avevano ricevuto denaro da un’azienda farmaceutica che produce ivermectina, la versione pubblicata ometteva questo dettaglio.