Il regista danese, autore di film come Dies Irae e Ordet, è forse fin troppo sconosciuto. Eppure le sue opere, come ci spiega Leonardo Locatelli, avrebbero ancora molto da dire ai nostri giorni
Esistono traguardi nella storia del cinema forse poco conosciuti, slegati dalla logica della distribuzione, ma autenticamente ricchi di immagini che possono insegnare non meno delle pagine di un libro. Di solito si considera il cinema un passatempo, oppure un oligopolio per pochi professionisti, ma esiste un “altro” cinema, fatto di immagini e storie che possono educare gli occhi e l’anima di chi li guarda.
Tra i registi che hanno retto al trascorrere del tempo, tanto da venire inseriti quasi regolarmente nelle proverbiali e inevitabili classifiche della storia del cinema, vi è il danese Carl Theodor Dreyer (autore di Dies Irae e Ordet), che così sintetizzò lo spirito che presiede alle (non molte) opere della propria carriera: «Amo profondamente la vita, tutti gli esseri veramente vivi. E i miei film vogliono essere una serena meditazione, una serena meditazione sul grande mistero della vita, non sulla morte, negazione della vita».
Un altro suo film, Ordet, si svolge in tempi più recenti in Danimarca e racconta poco più di una giornata, fino all’emozionante e commovente finale («È da pazzi per voi voler salvare una vita umana?»), della famiglia Borgen, raccolta intorno all’anziano patriarca Morten: l’ateo Mikkel, il primogenito, che aspetta il suo primo figlio maschio dalla moglie Inger dopo quasi otto anni di matrimonio, il “folle” ventisettenne Johannes, che si dice Gesù Cristo tornato in terra «perché tra i credenti non c’è nessuno che creda veramente», e il giovane Anders, innamorato di una sua coetanea il cui padre è però a capo di una confessione protestante avversa a quella di Morten. Un’opera girata a più di dieci anni dalla precedente e dopo un periodo nel quale Dreyer si era completamente dedicato alla sua grande “incompiuta”: il progetto per un film su Gesù Cristo girato in Terrasanta con attori ebrei («sarebbe il mio capolavoro»), che accarezzò fin dall’inizio degli anni Trenta – qualche tempo dopo la realizzazione del suo primo, grandissimo capolavoro, La passione di Giovanna d’Arco (1928) -e per il quale arrivò a raccogliere nell’arco di 37 anni una sempre più dettagliata documentazione, oltre 250 chili di appunti e fotografie scoperti solo dopo la sua morte (avvenuta il 20 marzo 1968, all’età di 79 anni), nel novembre 1969, in un deposito di Gerusalemme.
Drammi di anime, quindi potenzialmente invisibili, ma assecondati da un magistrale uso della macchina da presa che, con straordinari, “spettacolari” movimenti orizzontali combinati di raffinata bellezza – panoramiche che si innestano su carrelli e viceversa – a riprendere schermaglie verbali (e non) in ambienti interni, rende quasi ad un livello fisico, percepibile la tensione che parte dagli sguardi dei personaggi, soprattutto femminili, e nei quali questa tensione viene raccolta («Non il montaggio è lento, ma il movimento dell’azione. La tensione si crea nella calma» risponde Dreyer a chi accusa il suo cinema di troppa “lentezza”). Traiettorie visive paragonabili per splendore ad un particolare di Giotto o a una frase di Mozart, volendo entrare in paragone con altri linguaggi artistici, cui il maestro danese si affida anche quando la stessa sintassi cinematografica potrebbe tollerare stacchi più ortodossi. Movimenti che vanno a seguire, precedere o avvolgere i magnifici protagonisti delle sue opere, quei personaggi che, come è stato detto, «sono sempre come delle prue, sono sempre come monumenti anche nella più semplice delle inquadrature, sono già staccati da se stessi», ombre in bianco e nero palpitanti di vita, abitanti di un cinema che «ci obbliga al momento della visione e al momento in cui, dopo la visione, siamo mutati per sempre, mutanti per sempre, colpiti proprio da questa monumentalità del semplice, monumentalità di quello che siamo sempre stati e che quindi non abbiamo mai avuto il tempo di riconoscere e di vedere e che abbiamo infine la libertà di vedere nella propria, nella nostra schiavitù senza memoria» (Enrico Ghezzi).
