IL VENTO E IL LEONE/ Il film di Milius con una “sfida” sull’appartenenza

- Leonardo Locatelli

40 anni fa usciva nei cinema il film di John Milius: due ore di cinema di inesausta ricchezza e disseminate di giudizi più che attuali. La recensione di LEONARDO LOCATELLI

Vento_LeoneR439 Una scena del film

«Vedi l’uomo al pozzo? Come raccoglie l’acqua? Quando un secchio si svuota, l’altro si riempie. È così con il mondo. Al momento, sei piena di potere. Ma lo versi inutilmente e l’Islam raccoglie le gocce che cadono dal tuo secchio»… Quarant’anni fa la caduta di Saigon (30 aprile 1975) sanciva la simbolica conclusione della guerra del Vietnam e, quindi, del disastroso intervento militare statunitense nell’area del Sudest asiatico (di fatto già annullato dai cosiddetti accordi di pace di Parigi del gennaio 1973). Meno di un mese dopo nelle sale degli Stati Uniti (22 maggio) e di lì ad altri cinque mesi in quelle del Regno Unito (26 ottobre), usciva Il vento e il leone, scritto e diretto da John Milius (1944). 

Il film è ambientato nel 1904 in Marocco, dove un famoso capo berbero, Mulay Ahmed Mohammed el-Raisuli (Sean Connery), rapisce una vedova statunitense, Eden Pedecaris (Candice Bergen), insieme ai suoi due figli, William e Jennifer, chiedendo come riscatto la libertà del suo Paese dalle potenze coloniali: per tutta risposta il Presidente americano Theodore Roosevelt (Brian Keith) decide di inviare i Marines…

Mancavano ancora quattro anni (novembre 1979) alle drammatiche vicende legate ai cinquantadue membri dell’ambasciata Usa a Teheran presi in ostaggio dopo l’assalto all’edificio da parte di un gruppo di studenti islamici, eppure l’allora trentunenne sceneggiatore e regista – fama di enfant terrible, di giovane geniale ma folle, grandissimo appassionato di armi da fuoco («Non appartiene a questo tempo» per il collega John Huston), anarchico di destra fuori dagli schemi (Pauline Kael scrisse di «chic fascism», il diretto interessato parlò di «zen fascism» e «zen anarchism») – aveva già detto quanto c’era da dire in proposito: «Ha partecipato anche Lei alla caccia all’orso, signor Presidente?» «Sì, mi dispiace dirlo» «Perché Le dispiace, signor Presidente?» «Perché è una degna creatura. Questa è la sua valle. Questa valle apparteneva all’orso e noi siamo gli intrusi qui. Siamo abituati agli animali selvatici che fuggono alla vista di uomini armati. L’orso grigio americano non teme nulla: né uomo, né armi, né morte. […] L’orso grigio americano è un simbolo del carattere americano. Forza, intelligenza, aggressività. Un po’ cieco e avventato a volte, ma coraggioso senza alcun dubbio. E un altro tratto accompagna tutti i precedenti» «Quale, signor Presidente?» «La solitudine. Un orso trascorre la sua vita da solo: indomabile, invincibile ma sempre solo. Non ha veri alleati, solo nemici, ma nessuno potente come lui» «Lei pensa che questo potrebbe essere un tratto americano?» «Certo. Il mondo non ci amerà mai. Potrebbe rispettarci, potrebbe persino iniziare a temerci, ma non ci amerà mai. Perché abbiamo troppa audacia e siamo anche un po’ ciechi e avventati a volte».

Secondo lungometraggio di Milius, «forse il [suo] film più gioioso […], appena venato da un’ombra di nostalgia» (Dizionario dei registi del cinema mondiale, Einaudi, Torino 2005, p. 572), Il vento e il leone – nonostante l’ambientazione marocchina e americana, interamente girato in locations spagnole: Madrid, Meseta Central (Madrid), Almería, Bahia de los Genoveses (Almería), Cabo de Gata (Almería), Granada, La Calahorra (Granada), Siviglia, Piazza delle Americhe (Siviglia) – costituisce ancora oggi un felice mix di personale adesione del regista allo spirito degli eventi narrati e di infedeltà storica dello sceneggiatore ai fatti da cui prende le mosse. Va infatti precisato che se la storia è basata su di un incidente realmente accaduto che ha visto il rapimento di Ion Perdicaris, un espatriato americano che viveva a Tangeri (figura poi diventata un personaggio femminile per il film), al contrario, sia i due figli che l’attacco americano al Palazzo del Pascià a Tangeri insieme alla battaglia finale tra americani e tedeschi sono invece tutte invenzioni dello stesso autore (che si ritaglia anche un piccolo cameo, interpretando il mercante di armi nel Palazzo del Sultano a Fez). 

In definitiva, non solo «[u]no dei più scattanti film d’avventura degli anni ’70, forse il miglior risultato di Milius (insieme al successivo Un mercoledì da leoni)» (il Morandini 2011 – Dizionario dei film, Zanichelli, Bologna 2010, p. 1634), ma anche poco meno di due ore di cinema di inesausta ricchezza, che a malapena riescono a mantenere al loro interno figure vivide, avvenimenti e prove da vivere e attraversare, decisioni da prendere a ogni momento, da cui dipende il destino sia dei personaggi che delle persone che li circondano (e, forse, quello del mondo), oltre a regalare qui e là battute e giudizi di sorprendente intelligenza e attualità.

E questi ultimi non posti – si badi bene – sulle sole labbra dei due contendenti del titolo, il presidente Roosevelt e il condottiero Raisuli – che la Storia (ma non di certo la visione epico-umanistica di Milius) potrebbe spingere a considerare solo come acerrimi nemici, più che semplici avversari -, ma anche del personaggio di Eden Pedecaris, con i suoi due figli. Ovvero gli altri protagonisti di un film al cui termine lo statunitense Milius lascia ultime inquadratura e parola non al (trionfante) connazionale, ma al (perdente) berbero, con una frase pronunciata al tramonto in riva all’oceano – dalle cui onde tutto è iniziato – che chiude sì la vicenda narrata sul grande schermo, ma in fondo per “aprirla” come sfida nello spettatore, tra il pubblico: «Grande Raisuli, abbiamo perso tutto. Tutto è portato via dal vento, proprio come avevi detto. Abbiamo perso tutto!» «Sceriffo, non c’è una cosa nella tua vita per cui valga la pena perdere tutto?». Più grande è l’ideale che ti muove, al quale appartieni, e più sei libero nelle circostanze da affrontare e davanti ai loro esiti, per deludenti o drammatici che possano essere.

«A Theodore Roosevelt. Tu sei come il vento, e io come il leone. Tu formi la tempesta. La sabbia ferisce i miei occhi e la terra è riarsa. Io ruggisco con sprezzo ma tu non senti. Ma tra noi c’è una differenza. Io, come il leone, devo rimanere al mio posto. Mentre tu, come il vento, non conoscerai mai il tuo. Mulay Ahmed Mohammed el-Raisuli il Magnifico, Signore del Rif, Sultano dei Berberi»: sul grande schermo correva l’anno 1904, nella sala cinematografica il 1975, in John Milius il Novecento che fu, era e sarebbe stato… e oltre.





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