Nella bufera finanziaria globale, è più urgente che mai parlare del lavoro, e parlarne realisticamente. Non tanto del lavoro come “fattore produttivo” o “classe sociale”, non solo del lavoro variamente contrattualizzato e remunerato; ma di tutto il lavoro, incluso il molto lavoro non remunerato che contribuisce tangibilmente alla creazione di “ben-essere” (quanto lavoro femminile nel prendersi cura di piccoli e anziani…). In particolare, di quei momenti in cui in qualunque lavoro si mettono in gioco l’energia interiore, le intuizioni, la fantasia; momenti in cui la distinzione fra lavoro formale, informale e gratuito perde di rilevanza, davanti alla sorprendente realtà di un’opera che prende forma. In quel momento sta accadendo qualcosa che fa intuire cosa sia il lavoro nel suo pieno significato: actus personae, azione libera e orientata a uno scopo; un’azione che non può essere scorporata dalla realtà della persona tutta intera. «Lavorare è fare un uomo al tempo stesso che una cosa», diceva Mounier.
Forse pochi sono disposti a credere che, nella crisi finanziaria, la questione cruciale per l’oggi (è nell’oggi che si vive, e non altrove), riguardi il significato del lavoro; anche se molte voci preoccupate segnaleranno che il punto dolente è proprio il lavoro, o meglio la sua mancanza: la recessione, la disoccupazione.
Guardare il lavoro umano nella pienezza del suo significato, invece, ci sorprende e ci commuove. Scorgiamo nel lavoro umano qualcosa di misterioso, che inspiegabilmente trascende il ristretto orizzonte della necessità, dell’interesse materiale, della ricompensa: rintracciamo una sorprendente tenacia nell’agire, una tensione a lasciare una traccia e a generare qualcosa che duri, una soddisfazione per il lavoro “fatto bene” al di là dei riconoscimenti esterni – solo noi, magari, sappiamo che è davvero “fatto bene”. Questi tratti che riconosciamo nella nostra esperienza e in quella di chi ci è vicino sarebbero inspiegabili, se non fossero un’impronta indelebile che il Creatore ha lasciato nella nostra umanità.
Quando riconosciamo questi tratti della nostra esperienza, siamo più facilmente «chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5, 17). […] Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo». (Benedetto XVI, Collège des Bernardins, 12 settembre 2008)
Che abisso apre questa prospettiva, rispetto ai tanti discorsi (talvolta chiacchiere) sulla centralità della “risorsa umana” nell’impresa e rispetto ai richiami moralistici all’etica del lavoro, del business o della finanza. Come è possibile parlare seriamente di tutto ciò, senza rimettere al centro la natura e il significato profondo del lavoro, degli affari e della finanza? Ossia: senza riconoscere che il loro significato profondo sta nel portare in noi, opacamente ma indelebilmente, l’impronta del Creatore?
A chi pensa che questi siano ragionamenti pii, che non c’entrano con la realtà, domando: spiegatemi perché la Enron ha approvato un codice etico raffinatissimo, del tutto condivisibile… ma questo non l’ha salvata dallo sfacelo. Spiegatemi perché molte banche hanno creato una linea di prodotti nel segmento della “finanza etica”… e sono le stesse banche che, finché è durata la fase di euforia, hanno rincorso i profitti che venivano dai segmenti innovativi della finanza (ora li chiamiamo “tossici”). La realtà non imbroglia: la questione del significato si può mettere tra parentesi per un po’, ma non eludere.
Proviamo a fare un esempio in positivo: dove si può vedere l’impronta del Creatore nel lavoro di chi fa finanza?
Occorre partire dalla natura della finanza. Chi fa finanza, volente o nolente, guarda al futuro, che è incerto per definizione; ha bisogno di speranza (come minimo, nel senso “matematico” dell’aspettativa di un esito positivo delle sue decisioni). Chi presta, sta “scommettendo” sulla possibilità che l’altro partner realizzi la sua opera, cresca, sia capace di restituire. Talvolta si “scommette” dentro una relazione personalizzata, in cui i partner si sono reciprocamente scelti: ciascuno confida nell’abilità dell’altro, e insieme si avventurano nel fissare tra loro un patto che resista al tempo e all’incertezza che il domani porta inevitabilmente con sé. Questa è finanza “generativa”, aperta al futuro: crea imprese, opere, occasioni di lavoro per altri.
Ma è forte la tentazione di prendere le scorciatoie: si presta e si prende a prestito dentro un quadro di relazioni anonime, “di mercato”, non scegliendo un partner con cui guardare al futuro ma una temporanea controparte, rispetto alla quale si tiene sempre aperta una possibile via di fuga. È una tentazione forte, perché sembra permettere di fare i propri affari in tutta libertà, senza creare legami stabili con nessuno.
«Sarebbe fatale, se la cultura… di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami», si legge ancora nel discorso di Benedetto al Collège des Bernardins.
Almeno nel mercato finanziario, abbiamo la prova provata che la “libertà” di comprare e vendere rischi finanziari su un mercato anonimo che non chiede l’impegno dei legami, alla lunga, si è rivelato fatale. Non avendo scelto di chi fidarsi, ci si è affidati a un meccanismo collettivo intrinsecamente instabile (se c’è una certezza nella storia delle vicende finanziarie, è che la crisi arriva puntuale alla fine dell’euforia, sia che questa riguardi i bulbi dei tulipani, sia le azioni della “new economy”). È un meccanismo collettivo in cui, nel decidere di prestare e di prendere a prestito, non conta la qualità reale dei progetti di investimento; in cui non conta il futuro, ma solo l’opinione che il mercato esprimerà nei prossimi minuti sui titoli che rappresentano progetti, e sui molteplici “strati” di titoli che è possibile creare a partire da un oggetto di cui, alla fine, si perdono le tracce.
L’orizzonte di chi prende la scorciatoia si appiattisce sull’immediato: ma così facendo si perde di vista la realtà, ossia l’incertezza profonda che avvolge il futuro, e ci si rifugia nell’illusione che, grazie ai sofisticati marchingegni contrattuali a disposizione, si possa guadagnare facilmente quando i prezzi salgono e si possa “uscire indenni” quando il mercato frena.
Intendiamoci bene: non è la finanza che è “cattiva”, contrapposta all’economia reale che si suppone “buona”. C’è bisogno estremo, per rispondere realmente ai bisogni umani nel tempo e nell’incertezza, di una finanza in cui si possa rintracciare l’impronta del Creatore. La scorgiamo in chi va in cerca di progetti che valgono, di partner di cui fidarsi; in chi si assume il rischio di un patto durevole, in chi sceglie di “con-vivere” (in senso letterale: creando legami stabili) con l’incertezza che, realisticamente, fa parte della vita. Sono persone che sanno cos’è la prudenza, ma anche il coraggio e la fortezza; li si riconosce perché innovano, connettono, valorizzano opportunità che passerebbero inosservate a chi non si dà pena di coltivare rapporti; perché, quando le cose vanno storte, trovano delle buone ragioni per ripartire. Il significato del loro lavoro non è un pio dettaglio; fanno davvero un uomo, al tempo stesso che una cosa.
Per vivere, e non semplicemente subire, la crisi del presente è necessario rimettere al centro la questione del significato del lavoro. In tutte le epoche di grande incertezza, di tensione e di crisi, la ricostruzione della “città” non è venuta da progetti grandiosi immaginati e realizzati dall’alto (Bretton Woods II? Ma siamo sicuri?). È venuta dalla paziente e amorosa cura delle relazioni, attenta alla concretezza dei bisogni, consapevole della strutturale interdipendenza che lega gli uomini fra loro. I grandi monasteri, con le loro impressionanti innovazioni tecnologiche e organizzative; le grandi opere sociali; persino i monti di pietà e le banche hanno preso forma dal lavoro di uomini. Uomini come noi: attirati dal bene ma capaci di fare il male, vissuti in tempi non certo più più rosei dei nostri.
A un simile lavoro “creativo” siamo chiamati, nell’incertezza e nella crisi dell’oggi. Qualcuno dovrà riparare le brecce; penso che chi conosceva da vicino le complessità astruse dei derivati abbia un compito non da poco. Qualcuno dovrà esplorare strade nuove. Una cosa è certa: il lavoro cambia la realtà. Anche lavorare passivamente, l’aspettarsi una volta di più la soluzione dei problemi dai meccanismi sociali (pubblici, invece che di “mercato”), il non giocarsi nel significato del proprio lavoro cambiano la realtà. In peggio. L’inazione, il meccanicismo, la passività rendono la situazione più insicura, accentuano le disuguaglianze, approfondiscono le fratture, consolidano le “strutture di peccato” che ogni generazione è chiamata a modo suo a contrastare.
È veramente pericoloso vivere in una società dove nessuno si assume, col suo lavoro, il rischio di generare.