Il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi è stato chiaro: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che tutela dai licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, non è stato toccato. Però la norma della legge 300 del 1970 stabilisce che il giudice può dispone il reintegro del posto di lavoro, mentre la manovra varata dal governo autorizza i contratti aziendali o territoriali a derogare anche in questa materia. Quindi, in caso di licenziamento senza una giusta causa, il lavoratore non ha il diritto al reintegro, ma, diversamente da quanto stabilisce l’articolo 18, può ottenere per esempio un indennizzo economico.
L’articolo 8 della manovra stabilisce infatti che le intese aziendali o territoriali potranno derogare a leggi e contratti nazionali su molte questioni, tra cui le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, che però esclude il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della donna in concomitanza del matrimonio, che continuano quindi a essere tutelati.
Ilsussidiario.net ha contattato Luca Solari, docente di Organizzazione Aziendale all’Università degli Studi di Milano: «Questo decreto non cancella o modifica l’articolo 18, ma lascia alle parti, nell’ambito della contrattazione decentrata a livello territoriale o d’impresa, la possibilità di derogare al reintegro previsto dall’articolo 18. Certamente da un punto di vista politico spinge le parti a poter decidere di rimuovere questo meccanismo di protezione, però, ancora una volta, nella formulazione attuale, subordina questo a dei contratti che prevedano una serie di condizioni, collegate a obiettivi di recupero dell’occupazione, e devo dire che mi sembra una formulazione molto timida. Quindi in poche parole, non rappresenta un “pugno da ko” nei confronti dell’articolo 18, ma sembra uno di quei colpi di schermaglia messo lì per creare qualche difficoltà alle posizioni delle parti sindacali su questo tema».
Nel caso in cui si trattasse di qualcosa di più di una schermaglia, che risvolti potremmo aspettarci? «Questa previsione è direttamente collegata alla rappresentanza sindacale, perché è chiaro che a quel punto diventa determinante la modalità con cui questi accordi vengono poi recepiti dai lavoratori, con il rischio di creare una competizione tra le varie sigle sindacali. Se poi questo dovesse accadere, si può immaginare che sarebbe collegato a un modello di relazioni sindacali di tipo non conflittuale ma più partecipativo. Quindi di fatto questa cosa sta in piedi dove le due parti congiuntamente identificano in una maggiore libertà del processo di riconfigurazione degli organici una delle strade per rispondere alla crisi. Quindi o c’è una rottura sul fronte sindacale, come è già accaduto a Pomigliano e Mirafiori, oppure ci sono delle parti che si siedono e iniziano a pensare a una modalità di relazione industriale di tipo partecipativo che il nostro Paese non ha conosciuto».
Cosa pensa invece della questione del reintegro? «Se consideriamo che questo è possibile laddove ci sia un accordo contrattuale tra le parti e subordinato al fatto che questo serva a raggiungere degli obiettivi che sono quelli riportati dall’articolo, rappresenta il sacrificio di una modalità di gestione del rapporto di lavoro consuetudinario, ma che certamente ha reso molto difficili in certe fasi le scelte da parte delle imprese. Si apre davvero la possibilità di una maggiore flessibilità dal punto di vista delle imprese, a fronte della quale ai lavoratori viene data la garanzia assicurativa. Però in questa formulazione, laddove recepito dagli accordi, temo che non si tratti di un passaggio automatico, ma dovrà essere riconosciuto ancora una volta dal Tribunale del lavoro la sussistenza di queste condizioni, quindi non credo che laddove il contratto lo riconosce, necessariamente e immediatamente il licenziamento viene convertito in un indennizzo, perché in quel caso il lavoratore potrebbe ricorrere e sottolineare l’assenza di alcune delle condizioni e caratteristiche previste. L’attuale formulazione è sottoposta a talmente tante condizioni di accordo tra le diverse parti di coerenza di queste deroghe rispetto a una serie di obiettivi dichiarati, che il rischio è che non dia un supporto reale forte a una vera liberalizzazione delle politiche di uscita del personale».