Di per sé, sembrerebbe una novità positiva. L’Aspi, l’Assicurazione sociale per l’impiego introdotta dalla riforma Fornero, estenderà, dal primo gennaio, le garanzie finora previste esclusivamente per alcune categorie di lavoratori. Potranno usufruirne tutti i disoccupati che, in precedenza, siano stati impiegati a tempo indeterminato ma anche determinato. Occorrerà avere un’anzianità assicurativa di almeno due anni e un anno di contribuzione nel biennio precedente al periodo in cui si è rimasti senza lavoro. Per i redditi fino a 1.180 euro mensili sarà pari al 75%, per quelli superiori, si potrà godere del 25% della parte eccedente, con un tetto massimo di 1.119,32 euro. Durerà 12 mesi, 18 per i cittadini con più di 55 anni. Peccato che la validità della norma sarà negata dalla sua generale insostenibilità. Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro presso l’Università Bocconi di Milano ci spiega perché.
Qual è il suo giudizio sull’Aspi?
L’Aspi ha origine da un principio universalmente condivisibile, quello di estendere a tutti il trattamento di disoccupazione. Tale estensione, di fatto, già avveniva attraverso le cosiddette deroghe, relative alla cassa integrazione o alla mobilità, ma riguardava le categorie industriali tradizionali. Era necessario rendere strutturale la protezione, e l’Aspi è stata introdotta con questo obiettivo. Tuttavia, un principio di protezione universalistico contro la disoccupazione funziona esclusivamente in quei paesi in cui la rioccupazione del lavoratore avviene in tempi relativamente brevi. Altrimenti, il sistema non è finanziariamente sostenibile.
Come si ottiene questo risultato?
Occorre associare al trattamento di disoccupazione una politica attiva di reimpiego nei confronti del lavoratore che gode del beneficio. A partire dalle pratiche di formazione necessarie per la ricollocazione in funzione delle esigenze del mercato. Sappiamo che quanto fatto fino a oggi è decisamente insufficiente. L’idea che il lavoratore disoccupato vada preso in carico, e l’obbligo di seguire dei corsi di formazione, sono già presenti nell’ordinamento, ma hanno avuto esiti decisamente negativi. Il reimpiego, infatti, si è realizzato in una esigua minoranza di casi.
Perché il meccanismo finora non ha funzionato?
E’ del tutto assente un apparato idoneo. Gli uffici pubblici per l’impiego non funzionano. Perché non dispongono di strutture, competenze e personale. E, in tempi di tagli della spesa pubblica, riesce difficile pensare che la situazione possa migliorare.
Visto che lo Stato non è in grado di affrontare la situazione, non potrebbero occuparsene i privati?
Le agenzie di somministrazione e di lavoro sono nate esattamente per questo scopo. Negli anni ’90 l’Italia fu condannata dalla Corte di giustizia europea per il proprio sistema di ricollocamento pubblico, ritenuto del tutto inadeguato. Per questo motivo, venne rimosso il divieto di creare agenzie private per l’intermediazione della manodopera. Tuttavia, persiste tuttora una fortissima ambiguità ordinamentale rispetto al ruolo del soggetto pubblico e al suo rapporto con il privato. Il quadro normativo è incerto rispetto alla definizione di chi si deve occupare di cosa. Intanto, lo Stato continua a credere di poter svolgere efficacemente le funzioni legate alla ricollocazione. Il che mina l’efficacia delle agenzie, che si trovano a non potere disporre di tutti gli strumenti di cui avrebbero bisogno.
Anche in termini di risorse?
Certamente. Le risorse destinate allo Stato dovrebbero essere trasferite alle agenzie, che potrebbero, a quel punto, prendersi in carico i lavoratori disoccupati in maniera efficace, mentre lo Stato, così facendo risparmierebbe moltissimo.
(Paolo Nessi)