Ancora non è deciso, è già sta isolando il governo: il progetto di accorpare alcune festività in modo da far scaturire dal calendario italiano sei o sette giorni lavorativi in più, che da soli potrebbero equivalere a un aumento di un punto del Pil, non piace a nessuno. Il primo a formulare questa proposta, che il governo ha fatto propria e messo all’ordine del giorno di una delle prossime riunioni del Consiglio dei ministri (forse già domani), era stato il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo, che martedì ha ribadito le ragioni della sua proposta: “Lavorare nove mesi all’anno a un Paese come il nostro non basta più. La concorrenza internazionale ci sottopone a uno stress che va fronteggiato diversamente: anch’io avrei preferito che si potesse continuare come prima, ma non si può”. Dunque, avanti con l’accorpamento delle ferie e dei ponti per far ripartire il Paese.
Ma il coro di no è stato assordante, anche da provenienze molto diverse. Il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, ad esempio, ha sostenuto che basterebbe, piuttosto, “spazzar via tutte quelle secolari anomalie festaiole fondate sui sentimenti religiosi e popolari della nostra gente, su radicate o più recenti tradizioni civiche o su avvenimenti legati alle vicende storiche e sociali di quest’Italia che ha appena compiuto 151 anni di unità politica e 64 di sana e robusta (nonostante i tempi grami) Costituzione repubblicana”. Il ministro Andrea Riccardi è preoccupato che si tocchino “date simboliche come il 25 aprile, mi sembra stridente e lesivo dell’identità che si voleva preservare. Per non parlare del primo maggio, la cui abolizione (o accorpamento che sia), avrebbe in questa congiuntura anche una valenza depressiva”.
E i sindacati? Non ne parliamo: per la Cgil, l’idea “si muove nella direzione opposta rispetto a quanto sarebbe necessario che il Governo facesse, se la proposta diventasse legge saremmo di fronte a un modello autoritario e imposto alle parti, che segnerebbe un’ulteriore regressione democratica”.
In realtà, le cose non stanno in termini così drastici. Sia perché il governo è ben consapevole di dover negoziare e di non poter imporre una novità così significativa per le abitudini dei cittadini. E poi perché un’utilità la norma oggettivamente l’avrebbe. Sul tavolo, c’è un massimo di 12 giorni di festività che potrebbero essere ridotti o tagliati, alcune aziende come recentemente l’Alenia si sono portate avanti con accordi molto innovativi che permettono il pieno utilizzo degli impianti, sette giorni su sette. È chiaro, infatti, che ogni nuovo accordo dovrà essere recepito dalle categorie che nei loro contratti specifici hanno magari anche recentemente normato in modo diverso la materia.
Secondo Polillo e i molti sostenitori della sua idea, lavorare di più fa diminuire il costo del lavoro per unità di prodotto, in sigla il “clup”; ma questo non basta da solo a far aumentare la produttività e gli investimenti, ma l’aumento del “clup” induce l’aumento del margine operativo lordo delle imprese che consente loro di aumentare gli investimenti. Da questo circolo virtuoso deriva l’aumento del Pil. E questo è vero nell’insieme dell’Azienda-Italia: è chiaro che i settori in crisi non se ne fanno un bel niente del diritto di lavorare di più e che proprio oggi la Fiat ha annunciato ferie prolungate in agosto visto che ha i piazzali pieni di auto invendute e non ha senso produrne altre. Ma l’economia manifatturiera italiana è per fortuna molto dinamica, per il 75% ha vissuto riconversioni significative in anni recenti, è elastica e flessibile, reagisce rapidamente alle crisi ed esporta. Gli ultimi dati sull’export dimostrano che è in atto una ripresa, ma anche chi importa materie prime o componenti, se le elabora con maggiore produttività grazie alla riduzione del clup, giova ai propri conti e quindi al Pil.
È presto per dire se la montagna della polemica scoppiata partorirà il solito topolino rachitico o se la riforma delle festività si farà e a che prezzo: ma che si parli seriamente del tema, è veramente ora. Che sia un sacrificio per tutti, il lavorare di più, non ci piove; che abbia anche un effetto in parte controproducente, perché chi lavora di più sta meno in ferie e quindi consuma di meno, è altrettanto vero: ma sono sacrifici e controindicazioni molto meno amari e gravi di tanti altri che stiamo già facendo e degli altri che senza un’inversione di rotta non potremo che prima o poi dover subire.