Per il momento, le falcidie delle spending review, si starebbero concentrando sulle pubbliche amministrazioni. Nel decreto all’esame del governo, che ieri ha incontrato gli enti locali e le parti sociali, ci sarebbero, in particolare, alcuni provvedimenti volti a tagliare il 10% dei dipendenti e il 20% dei dirigenti. Prima di procedere, sarà effettuata una mappatura della pianta organica ove saranno individuati gli esuberi reali. Poi, come si prospettava da tempo, si procederà all’accompagnamento alla pensione degli over 60. Riceveranno un reddito pari all’80% del loro stipendio per due anni al termine dei quali, se se non avranno raggiunto i criteri minimi per accedere al trattamento previdenziale, saranno derogati dalla riforma Fornero. Si sta studiando come estendere tali misure, oltre al blocco degli stipendi e alla riduzione delle assunzioni, anche agli enti locali. Abbiamo chiesto a Elena Zuffada, ordinario di Economia aziendale presso la facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, come valutare l’intervento del governo. «L’esigenza finanziaria relativa a questa fase storica è comprensibile. Tuttavia, se prendiamo in considerazione il numero dei dipendenti pubblici rispetto alla forza lavoro complessiva, ci accorgiamo che nel nostro Paese il rapporto è al 14,3%; del tutto allineato, quindi, alla media Ocse del 14,9%, mentre ci sono Paesi, come la Francia, in cui il rapporto è al 21,9%, o come la Norvegia, in cui è al 29,3%».
Questo significa che, numericamente, il nostro apparato pubblico non è per nulla sproporzionato rispetto a quello degli Stati avanzati. «Ciò che, invece, è sotto gli occhi di tutti è la sua produttività. La Pubblica amministrazione italiana, infatti, contribuisce scarsamente a uscire dalla crisi, a sostenere la ripresa e la competitività del sistema Paese. A fronte di tali considerazioni, quindi, i tagli, effettuati semplicemente su base numerica, rischiano di rivelarsi un’ipotesi semplificatrice». Occorre capire con che criterio si intende procedere. «Limitarsi a tagliare rischia, oltretutto, di eliminare, accanto gli sprechi, le eccellenze. Per incrementare realmente l’efficienza, invece, si potrebbe, ad esempio, sviluppare i meccanismi di mobilità, in modo da spostare i dipendenti pubblici da situazioni di esubero ad altre funzioni preesistenti o innovative. Tale criterio si potrebbe applicare anche agli enti locali. Per esempio, accorpando le Province si ridurrà il numero degli amministratori. Ma resterà pur sempre il problema dei dipendenti da riallocare».
Una situazione complicata, insomma, che riguarda anche elementi che si davano, oramai, per scontati. Come le consulenze esterne. È opinione comune, infatti, che andrebbero drasticamente ridimensionate. Eppure, non sempre è così. «Talora rispondono, è vero, a logiche clientelari ma più spesso sono la modalità per acquisire dall’esterno competenze necessarie alla Pubblica amministrazione e che non si sono adeguatamente sviluppate all’interno delle organizzazioni». In ogni caso, la logica di fondo con la quale la spending review sta venendo messa a punto è sbagliata. «È difficile pensare che, dal centro, sia possibile tagliare in maniera oculata e incisiva. Solo chi ha una responsabilità diretta, a livello locale, attraverso il controllo di gestione, può capire dove si annidano realmente gli sprechi. Il problema, tuttavia, è che i manager e gli amministratori pubblici, negli ultimi anni, non hanno dimostrato di saper usare adeguatamente gli strumenti incentivanti e le politiche retributive secondo criteri meritocratici».
Come se ne esce, quindi? «Occorrerebbe introdurre, a livello capillare, una nuova cultura, fondata sulle competenze e sui comportamenti responsabili. Il problema è che una revisione del genere necessita di tempi non immediati». Forse, una via di mezzo, esiste. «Per lo meno, il governo dovrebbe procedere in maniera più rispettosa dell’autonomia degli enti locali, riconosciuta, del resto, dalla Costituzione. Si potrebbe assegnare agli enti stessi obiettivi quantitativi di risparmio lasciando loro la responsabilità di individuare le modalità migliori per raggiungerli. E, in prima battuta, si dovrebbe chiederlo alle amministrazioni centrali, dove i margini di manovra sono sicuramente più ampli».
Per impedire che il medesimo bene o servizio venga acquisito, a seconda dell’ente locale a un prezzo diverso, si parla, infine, di far leva sulle centrali d’acquisto. «Questo, effettivamente», conclude la professoressa, «può aumentare il potere negoziale delle pubbliche amministrazioni che, parlando con una sola voce, potrebbero spuntare prezzi più convenienti. L’importante è non ingabbiare gli acquisti centralizzati in procedure burocratiche che rallentino ulteriormente i tempi di gestione dei singoli enti e quindi i tempi di risposta ai cittadini e alle imprese».
(Paolo Nessi)