SPILLO/ La sindrome di Di Maio che esclude il confronto coi sindacati
Il Governo, in modo particolare il ministro Di Maio, sembra aver scelto di fare a meno del confronto con le parti sociali, che pure potrebbe tornargli utile. GERARDO LARGHI

Ormai è ufficiale, anche questo Governo è ufficialmente affetto da autismo politico. In altri termini e checché ne pensiate di dove esso ci sta conducendo, è però acclarato e indiscutibile che i suoi esponenti, o almeno l’azione che esprime il più mediatico, il più bello, e presente dei due viceministri, Giggino Di Maio, siano convinti della totale inutilità di confrontarsi con le organizzazioni della società intermedia. Perché? Non siamo sociologi (sennò una risposta banale la potremmo sempre trovare), ma proviamo a rispondere con la storia e quindi ci tocca risalire la corrente. Ci spieghiamo e scusino i lettori se prenderemo loro tempo partendo da lontano, ma “necesse est”.
All’oratorio tutti noi li chiamavamo “i veneziani”. Non si inalberino i simpaticissimi abitanti di una delle città più belle del mondo: quelli che chiamavamo così (e che chissà, negli oratori del Veneto cattolicissimo erano noti come “i lombardi”) erano ragazzi anche dotati dal punto di vista atletico e tecnico, ma totalmente privi dell’idea che si giocasse in una squadra. Partivano palla al piede, o in palleggio a basket, e li rivedevi al termine dell’azione, termine che di solito coincideva con la conquista del pallone da parte degli avversari. E l’incazzatura dei compagni che maledicevano la scelta di averli inseriti in squadra.
Ecco: da qualche tempo, direi da una ventina di anni, la politica italiana è attraversata da una forte tentazione di venetismo. “Faso tuto mi” e tu stai a vedere come ti scarto il mondo e segno. Il primo fu Prodi: dopo aver strappato a fatica l’entrata nell’euro, il “Bologna” si guardò bene dal ringraziare i sindacati che pure gli avevano consentito di raggiungere il risultato. Seguì il Berlusca: simpaticissimo, ma neppure a parlarne di passare la palla governando “insieme” agli altri, ai corpi intermedi, alla società, agli industriali e ai sindacati, alle bocciofile e alle filarmoniche che nella italica repubblica fioriscono.
Fuori uno e dentro l’altro, ma niente cambiò: si dimenticarono termini come concertazione, si introdusse la consultazione, poi derubricata in “se mi va vi chiamo, sennò muti”. Arrivò Monti: erano professori, sapevano tutto loro. Figurarsi: riuscirono perfino a inventare una nuova categoria di disgraziatissimi non pensionati e non lavoratori (gli esodati, ricordate?). Poi fu Renzi: a dimostrazione che in Italia puoi essere un doge o un Medici, ma alla fine nulla muta. Avanti che so tutto io: fino a schiantarsi sul referendum e su una distribuzione “ad mentulam” dell’extra budget che l’Unione concesse in cambio di politiche migratorie meglio gestite.
E fu sera e fu notte e venne la Terza Repubblica, nata ufficialmente questa primavera, composta non certamente da professori (la loro congiuntivite per la prima volta non è curabile da nessun oftalmologo), ma da gente che ha deciso che il popolo lo consulta direttamente. Qualche click, un tweet, un like, due selfie e il gioco è fatto: ho sentito la mia ggente e so quel che vuole. E fin qui passi. Ma so anche tutto in materia fiscale, economica, di lavoro e di cultura, di sport e di musica, di architettura e di viabilità. Oddio, ogni tanto confondo valichi e tunnel, parchi tecnologici e acciaierie, tiranti e téndini, o tendìne e tendìni, ma che importa: perché devo sentire imprenditori e sindacati sui temi del lavoro quando io so già tutto e so come fare? Perché condividere la gloria di trovare le buone soluzioni quando posso fare da solo e portare a casa il risultato? Così Giggino, un nome che porta sfortuna occorre dirlo, Di Maio sta cavalcando allegramente sulle orme dei detestatissimi, da lui ma in fondo anche da molti italiani, suoi predecessori.
Come nel desfrosiano “Esercito dei dodess cadregg”, emulando gli avvinazzati avventori dei bar di periferia, il Governo sta bellamente approvando una Finanziaria che, a detta di tutti, né accontenta gli elettori né produce sviluppo, né tappa il debito, né crea lavoro. Giggino ascoltaci, prova ad aprire le porte, o almeno le orecchie, e dai un’occhiata agli ultimi accordi in materia di lavoro fatti da sindacati e imprenditori. Dopo aver twittato e loggato, in agenda metti un summit con chi la ggente la vede tutti i giorni dal vero non su internet.
Magari non ti diranno cose che vorrei ascoltare, ma almeno potresti trarne qualche spunto. Poi, per l’amor di Casaleggio e di Grillo, te le venderai tu, saranno idee nostrane, ma almeno ti eviterai (e consenticelo, eviterai a noi), imbarazzanti figure e un ben peggior destino in tema di lavoro, di ricchezza prodotta e di distribuzione del benessere. credici: i veneziani nelle squadre degli oratori finivano sempre per giocare da soli. Nel senso che non trovavano più una squadra.
E se i sindacati, come pare di capire, non ti stanno simpatici, se le confederazioni ti sono indigeste, dai, un amaro e tutto passa: in fondo dopo un’ora trascorsa ad ascoltare qualche esperto puoi tornare a sentire le sirene che ti dicono che sei il più bello di tutti. Bello e capace, colto e predestinato. Sicuro che non ne vale la pena? Potresti anche guarire dalla congiuntivite, ma di certo guarirai dal venezianismo oratoriano.
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