In questi giorni, il Governo ha presentato un piano per il rilancio dei Centri per l’impiego che, secondo i proponimenti dei redattori della riforma, dovrebbero essere rinnovati in competenze, risorse e funzioni, in modo da costituire il focus del mercato del lavoro. I Centri per l’impiego sono enti pubblici, che svolgono attività amministrative, come l’iscrizione alle liste di mobilità e agli elenchi e graduatorie delle categorie protette, la registrazione delle assunzioni, le trasformazioni e cessazioni dei rapporti di lavoro, il rilascio del certificato di disoccupazione.
A partire dal 1997, hanno rimpiazzato i vecchi uffici di collocamento, uffici di pertinenza statale afferenti alle direzioni del lavoro, acquisendo le risorse umane e strumentali delle strutture che andavano a sostituire; sono stati costituiti presso le regioni, che solitamente hanno dato loro articolazione provinciale. È bene dire che l’Italia all’epoca era l’unico Paese al mondo nel quale i datori di lavoro erano tenuti ad assumere per il tramite degli uffici di collocamento, pena pesanti sanzioni: potrà sembrare assurdo, ma fino al 1997 non solo era vietata ogni forma di intermediazione sul mercato del lavoro, ma era addirittura un reato assumere un lavoratore senza l’intervento degli uffici di collocamento.
Ma nei fatti, tale regola era pacificamente disattesa e si ricorreva a modalità informali o semiclandestine per svolgere intermediazione sul mercato del lavoro. Ci son voluti una sentenza della Corte di giustizia della comunità europea, il decentramento amministrativo posto in opera dall’allora ministro Bassanini, la progressiva apertura realizzata dall’allora ministro Treu, la riforma costituzionale del 2001 per scardinare un (inefficiente) monopolio e ripensare scopo e organizzazioni dei servizi statali per il lavoro. Sia consentito dire, però, che dal 1997 a oggi i Centri per l’impiego in realtà non sono molto diversi dagli inutili uffici di collocamento, né più efficienti… tutt’altro!
Nei giorni scorsi, il ministro del Lavoro ha presentato una riforma di tali enti che dovrebbe fare di essi il nuovo fulcro del mercato del lavoro, anche perché dovrebbero essere proprio i Centri per l’impiego gli enti deputati alla valutazione delle condizioni per accedere alle provvidenze economiche universalistiche che il Governo vorrebbe introdurre per i disoccupati/inoccupati (il c.d. reddito di cittadinanza). Secondo il piano, i punti cardine sarebbero: una maggiore qualificazione del personale addetto; una più stretta integrazione con i servizi formativi; l’istituzione di un software unico a livello nazionale; un re-branding che dia ai Centri per l’impiego un’immagine unitaria a livello nazionale. A disegnare i contorni della riforma è stato chiamato Mimmo Parisi, professore presso università statunitensi.
Alcuni dati di fatto inducono scetticismo sulla operazione che si vuole condurre. Un unico sistema informativo nazionale era stato immaginato già dal legislatore del 1997 (e poi anche dalle riforme degli anni successivi, sia pure con nomi diversi), ma non è mai stato realizzato anche per asseriti problemi tecnici. Inoltre, la riforma si scontra irrimediabilmente con il riparto costituzionale, che affida alle regioni le competenze sui Centri per l’impiego; anche se – viste le risorse che è stato annunciato saranno messe in campo (un miliardo di euro) – le regioni potrebbero non sollevare eccezioni di costituzionalità alla luce delle risorse di cui potrebbero essere destinatarie. Infine, e soprattutto, i Centri per l’impiego intermediano una percentuale risibile di assunzioni; percentuali bassissime di disoccupati cercano lavoro per il tramite di essi; si possono contare sulle dita della mano le imprese che si sono rivolti a essi per servizi di consulenza; il livello dei servizi erogati presenta differenze, tra nord e sud, sconsolanti: in sintesi, sono strutture sostanzialmente inutili, se non per un ruolo di mera gestione amministrativa, che si limitano di fatto a gestire le assunzioni obbligatorie e quelle senza concorso nel pubblico impiego. È significativo, da questo punto di vista, che il sito dell’Anpal, l’agenzia tecnica del ministero del Lavoro, nemmeno citi – fra le funzioni esercitate dei Centri per l’impiego – l’intermediazione.
In conclusione, il soggetto pubblico ha dato ampia prova di non essere in grado di offrire servizi efficienti nel mercato del lavoro: non si comprende dunque come si possa immaginare che una riforma possa rivitalizzare un soggetto che non è mai stato vivo. Talvolta si citano i casi virtuosi di alcuni paesi esteri, come Germania o Danimarca, che l’Italia forse con questa riforma vorrebbe emulare, dimenticando che l’Italia è una società del tutto diversa.
In Italia, secondo un’indagine conoscitiva condotta dall’Istat pubblicata nel luglio 2018, le assunzioni per il tramite dei Centri per l’impiego sono il 2,4% del totale; le agenzie per l’impiego, che in passato io stesso avevo considerato come una risorsa da valorizzare in una logica di sussidiarietà e di integrazione, hanno contributo invece al 5,2% di esse. Il 40,7% delle assunzioni avviene grazie ad amici e conoscenti; il 17,4% dei nuovi assunti si è direttamente rivolto al datore di lavoro; il 6,1% è stato direttamente contattato dal datore di lavoro.
Che senso ha, in un mercato del genere, buttar via i soldi nei servizi pubblici (o anche privati) per il lavoro? Piuttosto, un dato interessante è che il 6,6% delle assunzioni avviene a seguito di tirocinio, stage, ecc.: forse potrebbe essere più efficace impiegare le risorse che il Governo vuole stanziare per i Centri per l’impiego per sostenere e diffondere le esperienze formative e di orientamento.