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Home » Lavoro » IL CASO/ Il boom dei contratti a un anno pronto nelle grandi imprese

  • Lavoro

IL CASO/ Il boom dei contratti a un anno pronto nelle grandi imprese

Gabriele Franza
Pubblicato 5 Novembre 2018
Lavoro_Scaffali_OperaiR439

Lapresse

Dopo la sentenza di incostituzionalità sul meccanismo delle tutele crescenti e la riforma dei lavori flessibili è facile prevedere un massiccio turnover in alcune imprese

Nel suo ultimo articolo Francesco Sibani ha esaminato le conseguenze che avrà, in particolare sul costo del licenziamento, la sentenza con cui la Consulta ha dichiarato incostituzionale il meccanismo a tutele crescenti, fondato soltanto sull’anzianità di servizio, per il calcolo dell’indennità (ora da sei a trentasei mensilità) spettante in caso di licenziamento ingiustificato. Qui può solo precisarsi che, mentre la questione non interessa i rapporti di lavoro non soggetti al decreto legislativo n. 23 del 2015 (per i quali – a prescindere dalla data del licenziamento – continua a trovare applicazione l’art. 18 St. lav. nella versione del 2012 oppure, in base alle dimensioni aziendali, l’art 8, l. n. 604/66), anche per i rapporti di lavoro dei neoassunti dalle imprese di piccole dimensioni non sussiste alcun problema, trovando applicazione la tutela dell’art. 9, d.lgs. n. 23/15, con quantificazione giudiziale dell’indennità comunque oscillante tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità, oltretutto senza il meccanismo incrementale previsto dall’art. 8, l. cit., per i lavoratori con elevate anzianità di servizio. Pertanto resta confermata – a maggior ragione dopo i vincoli appena introdotti per i lavori flessibili – la logica premiale verso i piccoli imprenditori che assumano a tempo indeterminato. Di contro, la sentenza della Corte costituzionale rischia di avere conseguenze debordanti, stante l’effetto moltiplicatore, rispetto ai licenziamenti collettivi che interessano gli assunti dal 7 marzo 2015.


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In attesa dell’oramai imminente motivazione della sentenza, è comunque possibile aggiungere qualche ulteriore riflessione in relazione al “prodotto” normativo che risulta dalla combinazione tra la pronuncia di incostituzionalità e le riforme apportate alla disciplina dei lavori flessibili dal decreto “dignità”. In effetti, se prima del decreto legge n. 87/18 l’accesso libero ai lavori flessibili si accompagnava alla certezza, almeno rispetto ai lavoratori neoassunti e in una prospettiva a medio termine, di una tutela indennitaria particolarmente modesta anche per i licenziamenti ingiustificati adottati nelle aziende di maggiori dimensioni, adesso l’assunto sembra completamente ribaltato.


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Ragionando in termini preventivi e di soli costi – cioè prescindendo dall’auspicio che i giudici facciano un uso accorto del loro rinnovato potere, collegandolo comunque, seppur senza obblighi matematici, all’anzianità maturata quale basilare criterio di quantificazione ricavabile in via sistematica – le imprese medio-grandi dovrebbero ora scegliere se assumere stabilmente, esponendosi a un rischio economico pari, nel massimo, a trentasei mensilità (e salva l’ipotesi di insussistenza del “fatto materiale” ai fini disciplinari, che è ancora sanzionato con la reintegrazione depotenziata), oppure imbarcarsi nei complicati tentativi di aggirare le strettissime – e a oggi ambigue – maglie che consentono il rinnovo del contratto a termine o della somministrazione di lavoro a tempo determinato, tenendo conto che, in caso di violazione dei nuovi limiti introdotti per queste tipologie flessibili, alla sanzione indennitaria fino a dodici mensilità si aggiunge la conversione del rapporto a tempo indeterminato.


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Il raffronto lascia presumere che, nei limiti quantitativi consentiti e salvo diversa convenienza collegata ai costi della formazione, le imprese non seguiranno nessuna delle due strade, praticando invece un selvaggio turnover di lavoratori flessibili nel margine temporale annuale, tuttora sottratto a vincoli di giustificazione.

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