Secondo la Corte d’Assise di Venezia, le 75 coltellate di Turetta a Giulia Cecchettin non contengono l’aggravante della crudeltà. Un'ingiustizia?

La politica sia di destra che di sinistra insorge per le motivazioni della sentenza della Corte di Assise di Venezia nel processo conclusosi con la condanna di Filippo Turetta per l’omicidio della fidanzata Giulia Cecchettin. Eppure il giovane è stato condannato all’ergastolo, come richiesto dal Pm, dai giornali e dai salotti televisivi dove quotidianamente si celebrano processi (per lo più sommari) e si pronunciano sentenze (sempre e solo di condanna, possibilmente al massimo della pena).



Cosa ha determinato, quindi, questa alzata di scudi di politici e mass media? L’esclusione dell’aggravante della crudeltà nonostante la giovane sia stata raggiunta da 75 coltellate. O meglio, criticate sono state le ragioni che hanno indotto i giudici a non considerare sussistente questa circostanza (che comunque, anche se applicata, non avrebbe inciso sulla pena inflitta: cancellato dal nostro codice la pena di morte, la pena massima cui Turetta poteva essere condannato era l’ergastolo ed ergastolo è stato).



Ma le motivazioni con cui la Corte di Assise escludono le aggravanti non sono altro che l’applicazione di un principio di diritto ormai consolidato e più volte affermato dalla Corte di Cassazione. L’aggravante, hanno spiegato i giudici lagunari, sussiste quando si manifesta la volontà di infliggere alla vittima sofferenze aggiuntive rispetto a quelle relative all’azione omicidiaria, e nel caso specifico non sussiste la certezza che in capo a Turetta vi fosse questa volontà.

E, precisa la sentenza, la mera reiterazione dei colpi non è sufficiente a determinare la sussistenza dell’aggravante se l’azione non eccede i limiti connaturali rispetto all’evento e non trasmoda in una manifestazione di efferatezza fine a sé stessa.



Vi sono in giurisprudenza numerose pronunce che hanno applicato questo principio. La più famosa è quella della sentenza contro Salvatore Parolisi, il militare, sempre proclamatosi innocente, condannato per l’omicidio della moglie uccisa da 35 coltellate nel 2011. Parolisi fu condannato in primo grado all’ergastolo e a trent’anni di reclusione in appello, ma la Corte di Cassazione annullò quest’ultima sentenza proprio perché doveva essere esclusa l’aggravante della crudeltà e nel giudizio di rinvio la pena fu ulteriormente ridotta a vent’anni.

In quel processo la Cassazione, rifacendosi ad altre proprie precedenti pronunce, ricordò che non era possibile fissare “un preciso limite numerico dei colpi inferti oltrepassato il quale l’omicidio può dirsi aggravato dall’aver agito con crudeltà, essendo invece necessario l’esame delle modalità complessive dell’azione e del correlato elemento psicologico del reato posto in essere”.

La Corte di Assise di Venezia ha effettuato questo approfondimento osservando tra l’altro come dalla videoregistrazione si poteva rilevare che i colpi inferti furono ravvicinati e “quasi alla cieca”, frutto di un’azione concitata, con l’intento quindi di provocare sì la morte (e per questo l’imputato risponde di omicidio e per tale reato viene condannato), ma non anche quegli ulteriori supplizi o sofferenze aggiuntive che giustificano l’applicazione dell’aggravante.

Non vi è quindi motivo per criticare la sentenza, che ha solo applicato un consolidato principio di diritto. I politici evitino quindi critiche infondate e superficiali al sol fine di cercare facili consensi e lascino fare ai giudici il loro lavoro.

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