Caro direttore,
nei giorni scorsi è comparso su Avvenire un intervento che ha rilanciato con forza la dottrina della “decrescita pauperista”. L’opinione è stata firmata da Andrea Ranieri: ex sindacalista della Cgil, ex senatore Ds, poi membro della direzione nazionale del Pd e infine fondatore di Sinistra Italiana.
Il testo è particolarmente assertivo nel riproporre una critica antagonista all’economia “occidentale” e nel disegnare di un orizzonte dichiaratamente “alternativo” per la politica economica e sociale del Paese nel post-Covid: ben oltre l’appello a indirizzare la ricostruzione entro più consapevoli logiche di sostenibilità.
La premessa metodologica appare il ripudio della “concezione di un solo tipo di sviluppo, trainato dalla crescita economica, dagli incrementi di produttività, dai consumi”. Viene respinto e denunciato come ingannevole il nesso logico-economico secondo cui “la povertà va combattuta per far ripartire i consumi”. C’è l’invito a resistere all’impulso a ricercare un new normal: “a ricostruire, negli auspici, quello stesso mondo che aveva provocato la crisi economica e la crisi ambientale”.
La ricostruzione – in questa prospettiva – non ha affatto come obiettivo una rapida ripresa del Pil e degli altri parametri e aggregati macro. Anzi: la “non-ricrescita” – cioè la decrescita strutturale del Pil – viene prospettata come rottura culturale e politica necessaria e auspicabile: come principale obiettivo intermedio, condizione utile, vincolo e leva per promuovere un cambiamento radicale degli assetti economici e sociali. La pandemia appare, in questo quadro, un’occasione preziosa per ritentare la realizzazione di opzioni politico-culturali di lungo periodo (vi si percepisce, in filigrana, la stessa sensibilità che ha spinto Benedict Mayaki – in un articolo inizialmente pubblicato da Vatican News nei giorni del lockdown – a guardare al Covid come a una sorta di “alleato” della causa ambientalista).
In concreto, la raccomandazione di Ranieri è comunque chiara: è consigliabile “organizzarsi in Occidente per diventare più poveri… Decidere di diventare più poveri e più uguali è la strada per sconfiggere la miseria”. E occorre “ragionare sulla povertà non solo come una condizione da cui uscire (povertà imposta) ma come una condizione consapevole (povertà scelta)”.
La “fase 3” – anzitutto nelle decisioni del governo italiano – deve quindi puntare in direzione diametralmente contraria a ogni “crescita” e concentrarsi invece sulla redistribuzione strutturale per via fiscale di “patrimoni e redditi” in un’Italia da ripopolare di “poveri ed eguali”. E su questo sfondo è tutt’altro che implicito – nell’articolo di Ranieri – il ritorno dello Stato a un ruolo egemone: sia nella produzione che nella distribuzione della ricchezza; sia come imprenditore, sia come tendenziale pianificatore socio-economico di una società a-zero-diseguaglianze. Benché Ranieri citi con qualche nostalgia gli “operai orgogliosi” (dunque lavoratori dipendenti) è chiaro che nella sua Italia “povera ed eguale” non pare avere alcuna cittadinanza l’economia d’impresa: cioè la libera iniziativa capitalistica nella competizione di mercato, che resta la matrice dell’Azienda-Italia reale di oggi.
Il manifesto cui il quotidiano dei vescovi italiani ha riservato visibile ospitalità, non è sindacabile nel merito delle finalità dichiarate – in sé rispettabili come ogni altra proposta politica, economica e sociale – e tanto meno nella coerenza delle scelte delineate. La teoria della decrescita – che secondo alcuni studiosi è assai più un’ideologia politica che un modello di analisi e di strategia del terreno socio-economico – è del resto da almeno un decennio al centro del confronto politico-culturale: con più di punto di contatto anche con le prospettive più aggiornate del magistero sociale della Chiesa cattolica. È inevitabile – e tutt’altri che disutile – che il dibattito prosegua acceso nel post-Covid: alimentato da un nuovo bestseller di Thomas Piketty piuttosto che dai documenti pastorali della Chiesa; dall’ipotesi d ricomposizione “neo-umanistica” formulata dal filosofo francese Edgar Morin (e fatta propria sia da Papa Francesco che dal premier italiano Giuseppe Conte, indicato da M5s) piuttosto che in un op-ed su un quotidiano cattolico italiano, siglato da un politico di formazione marxista.
Almeno un paio di annotazioni oggettive sembrano tuttavia lecite. La prima e principale: nessuna agenda-Paese al mondo è incentrata sulla decrescita pauperistica; salvo forse che in Corea del Nord, ultimo ridotto sovietico; oppure in Venezuela, dove la povertà è ormai l’arma principale di una guerra civile ogni giorno più tragica. Tutti i governi “in Occidente” – anzi spesso gli stessi testi costitutivi degli Stati e dei super-Stati – hanno fra i loro grandi obiettivi civili “pari dignità e opportunità”, oggi più inclusive di diritti. Nessuna istituzione, tuttavia, propone – o impone – ai cittadini una “povertà rieducativa” per approdare all’“eguaglianza fra poveri”.
Neppure il candidato democratico alla Casa Bianca Joe Biden – su cui convergono attese politiche planetarie – sta duellando con Donald Trump contestando o negando l’obiettivo di far risalire in fretta Pil e occupazione. Nemmeno Biden, pur di sconfiggere Trump, sarebbe disposto a sbandierare Stati Uniti “poveri ed eguali”.
Biden sa certamente di avere nel suo elettorato decine di milioni di americani con un reddito disponibile di pura sussistenza (fra di essi milioni di americani neo-impoveriti dal Covid). Sa anche che l’epidemia ha rimesso a nudo la cronica assenza di una sanità di base negli States. È consapevole che dietro il movimento Black Lives Matter si cela la lotta alle discriminazioni socioeconomiche “2.0”: quelle che non escludono più dagli autobus ma dall’accesso a un’education adeguata. Tuttavia l’affermazione di Biden come candidato dem 2020 alla Casa Bianca – fortemente voluta dal predecessore Barack Obama – è maturata principalmente nel rifiuto aperto delle posizioni radicali di Bernie Sanders (ispirate a una “via americana al socialismo” storicamente utopica); oppure di quelle della giovane congresswoman Alexandria Ocasio-Cortez: che ha tenacemente costretto Amazon ad annullare un progetto – fiscalmente agevolato – di secondo quartier generale a New York da 45mila nuovi job qualificati. Long Island – contro la volontà del sindaco dem di New York, Bill de Blasio e del governatore dem Andrew Cuomo – rimarrà per ora un “laboratorio della decrescita”: peraltro incompiuto e non verificato nello step-2, quello che per “AOC” vedrebbe il fisco federale tassare al 70% dei profitti di Amazon e farsi direttamente investitore-imprenditore.
Un Paese che – in tempi recenti – ha “abbattuto” il proprio passato è invece la Cina. Il maosimo ha rappresentato dal canto suo una parentesi infinitesima nella storia millenaria del Dragone. È vero invece che Deng Xiaoping – restauratore della tradizione cinese di autoritarismo tecnocratico – ha colto l’occasione della scomparsa del leader della Lunga Marcia per una contro-rivoluzione che ha dato esiti storici infinitamente più importanti rispetto alla breve primavera delle Guardie Rosse. Le “Quattro Modernizzazioni” che hanno fatto della Cina la prima potenza economica mondiale all’avvio del terzo millennio hanno rovesciato con rapida efficienza il maoismo egualitario-pauperista. Una società economica di oltre un miliardo di “eguali perché poveri” ha visto crescita il Pil pro-capite medio annuo da 160 dollari all’anno nel 1978 a 8.800 dollari nel 2018 (senza preoccupazioni apparenti, almeno nell’immediato, per le nuove diseguaglianze).
Non sorprende che la Civiltà Cattolica – organo ufficioso della Santa Sede – abbia aperto da poche settimane una redazione a Pechino: per raccontare meglio gli sviluppi di questo “miracolo economico”. Né stupisce che, sull’ultimo numero, il direttore Antonio Spadaro si mostri personalmente attento a “L’influsso africano sul cattolicesimo cinese”: peraltro figlio riconoscibile del neo-colonialismo cinese in Africa. Capace d trasformare in pochi anni una città come Luanda – capitale-bidonville di un’Angola tardo-sovietica – in un clone di Shanghai. A proposito: l’Angola è stata strappata alla povertà endemica africana (Pil pro-capite moltiplicato di otto volte dopo il 2000) principalmente grazie al boom degli investimenti del capitalismo di Stato cinese: per nulla “umanitario” e invece potentemente ispirato dall’iper-crescita espansionista.
Se c’è comunque una regione del globo allergica alla “decrescita pauperistica” questa sembra rimanere l’Europa del dopo-Covid. Se – non più tardi di un mese fa – la Ue a traino di Germania e Francia (due Paesi di grandi tradizioni cattoliche) ha faticosamente deciso importanti aiuti a Paesi messi ulteriormente in ginocchio dal Covid, come l’Italia, non è stato per un improvviso “cambio di paradigma”. Non saranno solidarietà gratuita i 200 miliardi che la Ue ha stanziato a favore dell’Italia: non saranno “un dono agli italiani poveri”, un robusto contributo alla stabilizzazione del “reddito di cittadinanza”.
Quegli aiuti sono stati concessi – dopo un lungo serrato confronto politico, non etico – come credito e investimento di una parte dell’Europa su un’altra parte: perché non si apra ulteriormente la forbice fra due Europe. Perché la Ue ritrovi al più presto un cammino simmetrico di crescita, non perché gestisca una fase di decrescita generalizzata. I mezzi del Recovery Fund assegnati all’Italia sono destinati a progetti di sviluppo: anzitutto di rigenerazione della produttività del lavoro, stagnante da vent’anni. Verranno rilasciati dalle autorità Ue a fronte di piani che ben difficilmente potranno sostanziarsi nel puro assistenzialismo o nella ristatalizzazione del sistema produttivo: due dimensioni oggettivamente incompatibili con la modernità economica europea.
Non da ultimo, la Recovery Strategy è subordinata a un non lontano ripristino dei parametri di Maastricht: forse aggiornati, ben difficilmente rivoluzionati. Un’Italia orientata dalla “decrescita” si ritroverà per definizione in rotta con un’Europa in cui la dinamica del Pil è il riferimento fondamentale per pesare gli andamenti del deficit e soprattutto del debito. Un’Italia sempre più iper-indebitata – e in traiettoria centrifuga rispetto all’Eurozona – sarà sempre più simile all’Argentina: che nei giorni scorsi ha dovuto pilotare un’ennesima bancarotta (la nona in era contemporanea, la seconda in vent’anni) con i grandi creditori internazionali.
I pensatori “palingenetici” continuano, nel frattempo, a sostenere una dottrina gemella della “decrescita pauperistica”: la cancellazione di ogni partita debito-credito fra Stati. Per ora non se n’è mai vista una di reale.
Sostenere la decrescita pauperista vuol dire in concreto spingere l’Italia fuori dall’Europa, “dall’Occidente”. Forse più di quanto abbiano mai pensato di fare i sovranismi di ogni natura.