Caro direttore,
ritorno sul dibattito lanciato da Avvenire nelle scorse settimane a proposito del rapporto tra cattolici e cultura. Me ne dà l’occasione un incontro promosso dal Centro culturale della Svizzera italiana su Andrea Aziani, nato ad Abbiategrasso e morto in Perù nel 2008, dove era stato mandato da don Luigi Giussani per rispondere alle richieste di aiuto dei primi appartenenti al movimento di Comunione e Liberazione di Lima.
Una figura, la sua, poco conosciuta anche in Italia e di cui si è cominciato a parlare dopo la recente pubblicazione di un libro-testimonianza, Andrea Aziani. Febbre di vita (Itaca, 2023), autori Gianni Mereghetti e Gian Corrado Peluso. L’incontro di presentazione è stato il primo fuori dall’Italia. Un motivo in più per decidere perché proporlo all’estero, a Lugano, da parte di un centro culturale, e con quali ragioni parlare pubblicamente dell’esperienza religiosa di un cattolico.
Una prima ragione è strettamente personale. Avevo conosciuto Andrea Aziani alla Statale di Milano e qualche settimana fa mi sono recato a Siena, dove poi Andrea si era laureato e aveva studiato con mia moglie, per assistere alla presentazione del libro, senza nessuna ipotesi di promuovere un incontro a Lugano. A Siena ho visto persone per le quali quello studente, tanti anni prima, aveva inciso profondamente nelle loro scelte di vita e che, dopo tanto tempo, si ritrovavano non per un ricordo nostalgico, ma per la passione per la verità di sé che aveva suscitato in loro e le riuniva, al di là delle circostanze dell’oggi. Al termine della serata, un giovane mi si è anche avvicinato dicendomi che casualmente una persona lo aveva invitato e si era incuriosito per il modo con cui gli aveva parlato di quel personaggio. Questa curiosità è stata per me una conferma del valore umano e culturale della presentazione del libro, al di là delle appartenenze ambientali e dei confini geografici.
Ma c’è dell’altro. La presenza di Andra Aziani in Perù è stata all’insegna di un’apertura universale, cattolica. A un’amica che doveva raggiungerlo in Perù, Aziani scriveva: “Qui non c’è bisogno di conquistatori, ne hanno avuti anche troppi. Devi studiarti la storia del Perù e la geografia e la lingua e devi conoscere i Santi di questa terra e pregarli e amare questa gente. Così potrai inginocchiarti davanti a loro come Dio si è inginocchiato davanti a ciascuno di loro”. Lui, che chiamavano Andres, si era fatto peruviano per i peruviani, senza nessuna preoccupazione di portare una cultura cattolica, ma solo di condividere il suo ardore per l’uomo con chiunque incontrava. Ricordava papa Francesco nel discorso ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze Storiche: “La Chiesa cammina nella storia, accanto alle donne e agli uomini di ogni tempo, e non appartiene a nessuna cultura particolare, ma desidera vivificare con la testimonianza mite e coraggiosa del Vangelo il cuore di ogni cultura, così da costruire insieme la civiltà dell’incontro”.
Proprio questo è il punto. Andrea Aziani è stato un testimone che ha riunito un popolo, non lo ha generato lui, ma gli ha trasmesso una febbre di vita (come dice il titolo del libro-testimonianza); ha fatto rialzare esistenzialmente centinaia di persone (erano in migliaia al suo funerale a Lima) che si sono appassionate allo studio, hanno cercato un lavoro, hanno trovato un futuro, hanno ricominciato a vivere perché hanno incontrato qualcuno che ha scommesso sulla loro libertà.
Mons. Lino Panizza Richero, appena nominato vescovo di una nuova diocesi di Lima, si rese conto di un profondo vuoto educativo che investiva soprattutto i giovani: “Scoprii il grido di un popolo che desidera formarsi, che desidera conoscere la verità, che desidera entrare nel mondo del sapere e della cultura”. Così nacque l’idea di creare un centro qualificato di studio per rispondere a questa fame di sapere; un luogo che potesse rispondere ai problemi dei giovani nel campo degli studi superiori e del lavoro. Coinvolse subito Andrea, che diventerà il cuore pulsante della nuova Università Cattolica Sedes Sapientiae di Lima. Il suo metodo: introdurre i giovani alla realtà (allo studio, al lavoro, al futuro) secondo un’ipotesi positiva testimoniata dall’esperienza che tutto abbracci dell’umano; è il metodo che lui aveva imparato da don Luigi Giussani.
Molti di questi giovani Andrea li incontrava in università, ma molti li andava a trovare a casa, li aiutava nello studio, talvolta anche sostenendoli, di nascosto, finanziariamente, privandosi lui stesso del necessario. Era mosso dalla carità, come si legge nel libro-testimonianza, andando “sempre al cuore di ogni fatto e di ogni azione, il suo giudizio riconduceva all’essenziale, educava a guardare ciò di cui ognuno ha bisogno”. La carità risponde al bisogno se è ragionevole, se apre per lo meno la prospettiva di una domanda sul proprio destino, sul senso della propria avventura umana.
Perché la figura di Andrea Aziani è stata una presenza così significativa in un Paese sull’orlo di una crisi in cui, scrive in una lettera, “la peggior povertà non è quella economica, ma quella umana”? Questa domanda mi sembra che possa aiutarci a capire come rispondere alle sfide culturali di oggi. Andrea era un uomo libero, attento ai dettagli, pronto al richiamo, ma libero, in una realtà che, tra l’altro, manteneva e mantiene riserve verso la cultura e la presenza europee. Un uomo che viveva in profonda unità la dimensione della carità, della cultura e della missione perché viveva un cristianesimo ricco di ragioni. All’origine di questa unità, che in lui trascendeva dualismi e contrapposizioni tra parole e fatti, tra pensiero e opere, tra etica e cultura, c’è la sua esperienza di fede veramente spalancata su ogni espressione dell’umano e pronta a giudicarla, secondo il criterio di esigenza di bene presente in ognuno, a cominciare da sé stessi. Un’apertura all’altro che attingeva alla comunione, alla compartecipazione di un dono ricevuto e continuamente rinnovato nella relazione con chi incontrava, come documentano decine e forse centinaia di lettere e scritti lasciati e inviati a una schiera vastissima di persone che per questa condivisione di umanità diventavano suoi amici.
Al termine dell’incontro promosso dal centro culturale a Lugano, un gruppetto di giovani presenti in sala discuteva tra loro. Erano ammirati da un uomo che ha vissuto a tutto campo la sua vita, che viveva ciò che diceva, ma si chiedevano anche come loro nell’età dei social e della comunicazione digitale potessero condividere le domande e le risposte che avevano mosso quella persona di cui avevano appena sentito parlare. Apparentemente una esigenza secondaria e banale, ma forse un’esigenza che indica la necessità di dare un contenuto e un nome al bisogno che ci accomuna e che richiede di farsi gesto culturale per essere condiviso.
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