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Home » Cultura » LETTURE/ Da Leopardi ad Adorno: il Covid e le nostre ferite non rimarginabili

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LETTURE/ Da Leopardi ad Adorno: il Covid e le nostre ferite non rimarginabili

Paolo Valesio
Pubblicato 31 Gennaio 2022
Controllo del green pass (LaPresse)

Controllo del green pass (LaPresse)

Tornano d'attualità (chissà perché) le riflessioni di Adorno sulla "personalità autoritaria" e un'opera molto nota un tempo di Goffredo Fofi

Si sono aperte ferite non rimarginabili, almeno nei prossimi anni, nella vita italiana. Non si parla qui di disuguaglianze sociali o di divergenze tecno-scientifiche: problemi molto gravi ma ormai annebbiati dal chiacchiericcio che continua a riscoprire gravi problemi peraltro discussi, alla frontiera tra Otto e Novecento, da vari pensatori: si parlava già allora di “superstizione della scienza”, di esercizio della pura amministrazione che elimina la politica e conduce alla “disumanizzazione dell’uomo” ecc. Ma c’è anche qualcosa d’altro, qualcosa che le omelie laiche ed ecclesiastiche che corrono per l’Italia non menzionano abbastanza chiaramente.


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Nel giorno stesso in cui durante una bella predica in Sant’Ambrogio a Milano si esortava (giustamente) a ringraziare Dio per le sue benedizioni nell’anno passato – così distinguendosi dalla quieta disperazione agnostica del ritornello: “Speriamo che l’anno prossimo sia migliore”, già ironizzata da Giacomo Leopardi nel suo Dialogo d’un venditore d’almanacchi e di un passeggere – in quello stesso giorno dunque appariva un video tedesco dove un teologo laico con studi psicoanalitici, in camicia e pullover (fa piacere, ogni tanto, vedere un teologo in pullover) parlava in modo più esplicito, avendo intitolato la sua riflessione per l’anno nuovo “Andare l’uno verso l’altro, nei tempi della divisione”. E allora ci si chiede, andando col pensiero al di là dell’immediato presente: Quando e come si richiuderanno le divisioni fra italiani, in questi tempi in cui la paura si è mutata in sospetto e ostilità, con una deriva verso l’odio?


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Nel mezzo di varie spinte e controspinte, coloro che si oppongono alle misure di controllo definiscono se stessi come “resistenti”; e si ripubblicava, proprio l’anno prima dell’inizio della pandemia, un libretto intitolato Elogio della disobbedienza civile, dove si ricorda fra l’altro l’epica esperienza di Danilo Dolci (il quale lasciò un’ impressione indelebile in chi l’ascoltò parlare nei primi anni Settanta, in un circolo culturale a pochi passi dall’Università di Harvard), e si citavano i classici in questo campo come Gandhi, Simone Weil, il non dimenticato Aldo Capitini: fonti non esauste di ispirazione, come sostegno spirituale per resistere a tutte le forme di discriminazione.


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Ma il mondo descritto in quel piccolo libro – le vaste dimostrazioni, i cortei, i sit-in – sembra quasi scomparso, e non può essere rimpiazzato da qualche flashmob. Perché i partiti sono allo sbaraglio, e perché le nette (e pigramente ideologiche) distinzioni fra “sinistra” e “destra”, o addirittura fra chi sta “a sinistra della sinistra” (ancora presenti nel citato libriccino) stanno diventando obsolete. Anche per l’aumentata “efficienza” degli strumenti di controllo del cosiddetto “ordine pubblico”, in un’atmosfera politica in cui i raduni cittadini sono stati degradati con il termine questurino di “assembramenti” (tutto questo virgolettato sembra pesante, ma è necessario: le virgolette di avvertimento –  quelle che in inglese si chiamano scare quotes – sono una delle poche, timide, forme di critica oggi rimaste).

È riemerso invece il problema già descritto negli anni Cinquanta da Adorno e compagnia: quello della “personalità autoritaria”. E non si sono ancora distinti abbastanza chiaramente due diversi livelli di questa personalità: il livello alto dei detentori di autorevolezza, i cosiddetti decisori (coloro insomma che l’autorità la creano); e quello subalterno – per usare un termine gramsciano – delle persone che debbono applicare, più o meno autoritariamente, l’autoritarietà o autoritarismo che viene dall’alto. Più o meno autoritariamente… La speranza di una piena ripresa della democrazia in Italia emerge anche da gesti tutt’altro che solenni, da microscopiche divergenze quotidiane fra quei subalterni che applicano le istruzioni con gusto e piacere autoritario (sembrano – ma si spera di sbagliare – essere la maggioranza), e quelli che ogni tanto sostituiscono il loro buon senso alla cieca obbedienza.

La personalità autoritaria è quella per esempio di un’inserviente di teatro che, dopo aver disturbato lo spettatore rapito dal flusso della musica battendogli sulla spalla e indicandogli con il gesto che deve far risalire la mascherina esattamente sopra il naso, nota che colui ha obbedito con un’aria infastidita, e maliziosamente ripassa cinque minuti dopo battendogli nuovamente sulla spalla perché ha verificato il suo sospetto che lo spettatore (il quale è tornato nella sua resistenza al livello di uno scolaretto – e questo è ridicolo e triste insieme: gli autoritarismi provocano anche l’infantilizzazione) abbia riabbassato il bavaglio sotto il naso.

Mentre la personalità non-autoritaria è quella della bigliettaia su un treno che, passando a verificare biglietti e lasciapassare di due coniugi anziani seduti l’uno dirimpetto all’altro, controlla i documenti del marito che è sveglio, ma passa avanti senza disturbare con la sua ispezione la moglie che dorme. Minuscoli aneddoti senza importanza? No, tutt’altro: anche questi micro-fenomeni rivelano la spiritualità di un paese.

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