Ci sono libri di storia che hanno fatto a loro modo la storia. Libri che solitamente pochissimi hanno letto ma che sono divenuti emblematici di un’età, manifesti di una stagione culturale e politica che si è identificata con essi. E gli autori di questi volumi, loro malgrado, sono usciti dai muri circoscritti e un po’ ovattati delle accademie e sono divenuti star mediatiche, citati, intervistati, chiamati a conferenze e talk show.
Gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso sono stati in questo senso un terreno fertilissimo. E per molte ragioni. Ultima propaggine, quasi un colpo di coda, di una lunga stagione in cui le ideologie l’hanno fatta da padrone, questo ventennio ha costituito un terreno fecondo per la storia che s’è vista proiettata sul palcoscenico della notorietà, prima di finire nel silenzio e nell’oblio, ridotta a funzione ancillare della politica, della religione, se non addirittura a veste nobilitata del gossip. Se volessimo visualizzare tale periodo come una sinusoide, al suo apice positivo troveremmo senza dubbio l’anno 1989. Ovvio. È l’anno della caduta del muro di Berlino. Ma è anche l’anno del bicentenario della Rivoluzione francese. È il cinquantesimo anniversario dello scoppio della Seconda guerra mondiale e – per l’Italia – il settantesimo di fondazione del Partito popolare di don Sturzo e il sessantesimo della firma dei Patti lateranensi. Due anni prima si era celebrato il settantesimo della Rivoluzione d’ottobre. Insomma, ce n’era abbastanza per riempire pagine e pagine di libri e di giornali. Così, giorno sì e giorno no, le cosiddette “terze pagine” pullulavano di articoli di storia. Una manna per chi faceva – come il sottoscritto – il “mestiere dello storico”.
Revisionista sarà lei!
Nel 1988 esce in Germania un volume che scatena un putiferio. E se altrove può bastare questa parola – putiferio – in Italia essa certo non basta. Bisognerebbe usare parole come “guerriglia” ideologica, e qualche volta anche fisica. L’autore è da noi pressoché sconosciuto al grande pubblico. Si chiama Ernst Nolte (1923-2016). Ma, dopo la comparsa di Nazionalsocialismo e bolscevismo il suo nome balza agli onori, non solo delle pagine culturali dei giornali, ma talvolta anche della cronaca. Alle conferenze va scortato dalla polizia. Gli alberghi in cui soggiorna sono presidiati dalle camionette. Ma che ha scritto questo Nolte? Pochi lo sanno davvero, ma ecco confezionato il revisionista perfetto. Anzi, il capo dei revisionisti.
Gran parte della protesta anti-noltiana, che attraversa partiti, giornali, storici, studenti, etc. si fonda sulla semplice domanda posta, provocatoriamente, in quarta di copertina: “Si può distinguere tra i Lager nazisti e i Gulag staliniani? Esiste una differenza fra lo ‘sterminio di classe’ dei bolscevichi e lo ‘sterminio di razza’ dei nazisti?”.
Basta questa duplice domanda a scatenare l’inferno, almeno in Italia. Ma come? Come si permette, questo Nolte, solamente di pensare che possano esserci analogie tra due mondi inavvicinabili? Cosa vorrà mai insinuare? Non è che poi viene a dirci che tutto sommato il nazismo è stato “meno peggio” del comunismo?
Chi ha aperto il libro – e non sono molti – trova parecchi argomenti articolati e complessi (il che non significa assolutamente essere d’accordo con Nolte). Innanzitutto un chiaro saggio introduttivo di Gian Enrico Rusconi che accompagna criticamente l’ipotetico lettore in un cammino che ha radici profonde, che ci porta dritti in quel monstrum diplomatico e giuridico che è saltato fuori dalla Pace di Versailles, un “suicidio dell’Europa” – per usare le parole di Benedetto XV – forse ancor più grave e stupido della stessa Prima guerra mondiale.
Ma è soprattutto intorno al concetto di annientamento – divenuto, nella prima parte del XX secolo, uno strumento politico “naturale” e “razionale” – che Nolte spende pagine interessanti e inquietanti, nel contesto, non bisogna dimenticarlo, di quella che lo storico tedesco considera “la guerra civile europea” (altra idea mal digerita allora).
La tesi di Nolte la si trova espressa nell’introduzione: “Nelle pagine seguenti parto dal semplice presupposto fondamentale che con la rivoluzione dei bolscevichi del 1917 fu creata una situazione completamente nuova sul piano della storia mondiale poiché per la prima volta nell’età moderna un partito ideologico prese il potere in un grande Stato e dichiarò credibile la sua intenzione di realizzare in tutto il mondo, con lo scatenamento di guerre civili, una trasformazione fondamentale che avrebbe significato l’attuazione delle speranze iniziali del movimento operaio e la realizzazione delle predizioni del marxismo”.
L’opera di Nolte ripercorre, in realtà, attraverso una serie di indagini sull’evoluzione politica interna alla Germania, da Weimar in poi, e sulle relazioni internazionali di Stati e di partiti, la storia politico-ideologica dell’Europa dal 1917 allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Storia delle idee, innanzitutto, e delle relazioni strategico-politiche tra le compagini ideologiche che fanno irruzione sul palcoscenico della realtà, dopo la cesura provocata dalla Grande guerra.
Storia del pensiero originario e del pensiero indotto, riflesso, che trova un terreno fertilissimo e smisurato, quantunque nuovissimo: le masse.
E quando si ha a che fare con le masse, piaccia o non piaccia, non bastano più i tradizionali “affari di Stato e guerra” (oltre che di letto), per spiegare i fatti. Entrano in gioco elementi nuovi: la psicologia, la paura (come ha magistralmente dimostrato uno storico comunista francese quale Michel Vovelle a proposito della Rivoluzione francese), la mentalità… Tutte cose aleatorie, a prima vista, ma decisive nel determinare il corso della storia.
E dopo il ’17, la paura, in Europa occidentale, ha il nome dei bolscevichi. In Germania, a ciò, si aggiunga la “vergogna di Versailles”.
Il “modello” sovietico
“La paura della Germania borghese – scrive Nolte – di fronte a un’imminente rivoluzione comunista era ancora più profonda dell’entusiasmo della Germania nazionale e delle speranze della popolazione sconvolta dalla crisi”. Fin qui – si dirà – nulla di nuovo. Com’è che Nolte arriva a teorizzare che il bolscevismo “costituì anche una traccia e un modello per la rivoluzione nazionalsocialista?”
Innanzitutto Nolte rintraccia nel nazionalsocialismo un sostanziale spirito antiborghese e antiintellettuale (anche per questo antigiudaico) che si manifesta in una campagna di terrore e di sangue. “Si era passati così alla punizione di un modo di essere invece che di un modo di agire”.
In secondo luogo il partito di Hitler – come per i bolscevichi – si impone immediatamente sul piano della storia come “partito della guerra civile”, prima in Germania, quindi a livello mondiale.
Dopo la presa del potere da parte di Hitler, la Germania diviene “uno Stato ideologico nel quale un uomo e un partito tenevano tutto il potere politico nelle proprie mani con il consenso entusiastico di una parte considerevole della popolazione”.
Un’analisi approfondita della stampa tedesca dopo il ’33 e della letteratura minore, di propaganda, rivela una comunanza di linguaggio e di visione che talvolta non permette di distinguere se provenga da Berlino o da Mosca.
Uno sguardo, non di poco conto, va poi gettato sul rapporto tra potere e cultura: “La rivoluzione dei bolscevichi mise tutti gli artisti e gli scienziati di fronte alla necessità di prendere una decisione fondamentale: quella di approvare o di rifiutare, di collaborare o di emigrare”. Nel 1933, nel campo tedesco, “in molte località vennero istituiti dei ‘commissari per l’arte’”, venne licenziata “tutta la direzione del Bauhaus; tra i grandi musicisti abbandonarono la Germania Arnold Schönberg, Bruno Walter, Otto Klemperer, Fritz Bush e altri”.
Insomma, il volume di Nolte si snoda in un continuo raffronto tra le atroci caratteristiche della matrice e della copia. Ma certo la questione più spinosa resta quella che ha portato Nolte alla ribalta mondiale: ma davvero i lager radicano, ideologicamente, nei gulag sovietici? Siamo al punto critico dell’opera.
Come in uno specchio
Nolte introduce alcune categorie interpretative non solo originali, ma certo fuori dall’ordinario discorso sull’antisemitismo nazista e sulla realizzazione della “soluzione finale”. Lo annota Gian Enrico Rusconi: “Siamo così alla parte più impegnativa di Nazionalsocialismo e bolscevismo. Il paragrafo dedicato a Genocidio e ‘soluzione finale’ della questione ebraica rivela lo sforzo anche semantico dell’autore di venire a capo della peculiarità (Eigenart) dell’olocausto ebraico senza ammettere che sia ‘singolare’ e ‘incomparabile’”. Nolte semmai ammette che la “soluzione finale” è “unica” (einzigartig) in un senso non banale. Ma con ciò non è “incomparabile”.
La radice del ragionamento sta in quella disumanizzazione della guerra introdotta nella storia dal primo conflitto mondiale, in cui viene meno la distinzione, sul piano dell’annientamento, tra esercito combattente e popolazione civile. Con il ’17, in Russia, si introduce “il postulato dell’annientamento delle classi” che, secondo il principio dei cerchi concentrici, avrebbe dovuto interessare – dopo la bianca Rus’ – il mondo intero. Fatto proprio il concetto di genocidio che ha i suoi precedenti in Armenia, oltre che in Russia, dove gli ebrei – sottolinea Nolte – sono considerati “popolo”, prima ancora che comunità religiosa, lo storico tedesco giunge alla vexata quaestio: “La cosiddetta soluzione finale della questione ebraica sembra essere un’azione assolutamente condizionata ideologicamente, poiché Hitler e Goebbels erano a quanto pare personalmente convinti, come ripeterono spesso, che eliminare ‘il pericolo ebraico’ o ‘incidere l’ulcera ebraica’ fosse un ‘servizio reso all’umanità’”.
Se qui sta la caratteristica ideologica delle nefandezze nazionalsocialiste, con le loro caratteristiche trascendenti, in quanto “annientamento tendenzialmente totale di un popolo mondiale esse si distinguono “in modo sostanziale da tutti i genocidi” e sono “l’immagine rovesciata dell’annientamento tendenzialmente totale di una classe mondiale” già sperimentata dal bolscevismo.
Tuttavia – annota Nolte – “la soluzione finale non è l’unica prospettiva in cui può essere visto il rapporto tra nazionalsocialismo e bolscevismo. Bolscevismo e nazionalsocialismo furono sempre delle antitesi, e lo restarono sino alla fine, ma non furono mai contrapposti l’uno all’altro in nessun momento in maniera contraddittoria e quanto più la guerra si avvicinava alla sua fine tanto più forte divenne conoscibile uno ‘scambio delle caratteristiche’”. Il nazismo e Hitler – sono le ultime parole del libro di Nolte – rappresentano un insieme di paradossi concentrati in una medesima persona più “che in ogni altra figura e in ogni altro fenomeno del XX secolo”. Lo “spauracchio” sovietico sembra trasformarsi, proprio alla fine del conflitto, quando tutto è perduto in Germania, in un “modello ormai irraggiungibile”: “Se perdiamo la guerra – dirà Hitler nei suoi ultimi giorni – sarà perduto anche il popolo. Non è necessario badare alle basi di cui il popolo tedesco ha bisogno per la sua sussistenza più elementare… Perché il popolo ha dimostrato di essere quello più debole, e il futuro appartiene esclusivamente al più forte popolo orientale”.
Conclusione curiosa, che taglia fuori interamente l’Occidente e che rivela un’ossessione assai poco ideologica o razionale. La Russia bolscevica, soprattutto nella sua evoluzione staliniana, sembra costituire uno specchio in cui odio e ammirazione si combinano in un fatale, folle, forse unico, monstrum della storia.
A Nolte appartiene il copyright di quella frase, assai citata, relativa al “passato che non passa” (titolo di un suo saggio). L’aver indagato la psicologia complessa di due dittatori tragicamente unici nella loro follia metastorica, forse può aver condizionato negativamente gli approdi storico-politici noltiani relativi a questa porzione drammatica del Novecento, può aver indotto l’autore a taluni giudizi non facilmente digeribili. Ma certamente aiuta a comprendere la complessità di due Weltanschauung che non è detto non possano ripetersi.
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