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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Galli, “Le morti felici”: da Toscanini a Kafka, quei commiati che alimentano la nostra vita

  • Letture e Recensioni
  • Cultura

LETTURE/ Galli, “Le morti felici”: da Toscanini a Kafka, quei commiati che alimentano la nostra vita

Flaminia Colella
Pubblicato 6 Settembre 2025
(Pixabay)

(Pixabay)

Ne "Le morti felici" di Giorgio Galli le parole dall'aldilà scritte da protagonisti della storia dell'arte. Un coro vibrante lontano da ogni tristezza

Le morti felici di Giorgio Galli (scrittore e critico abruzzese nato nel 1980), edito da Il Canneto, è un testo singolare, che stupirà e commuoverà chi ama la storia dell’arte, e intrigherà chi è solito andare a sbriciare nei dietro le quinte delle vite degli artisti, non per voyeurismo, ma per passione e ammirazione nate dall’incontro con le opere.


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È un libro commovente e caloroso, e a dispetto del titolo, evidentemente preso in prestito da Albert Camus, al suo interno non si rintraccia alcun segno di necrofilia, né di citazionismo: al contrario, pare proprio di ascoltare, leggendolo, un vibrante coro di voci che si levano dalla terra, desiderose di prendere ancora parte al canto dei vivi, avendo così tanto donato il proprio spirito alla vita.


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L’opera, ordinata in due sezioni, Istanti (L’orizzonte, Il nome, Radicati, Nella vita, Sparire) e Strade, si presenta come una raccolta di lettere dall’aldilà, scritte da artisti e protagonisti della storia dell’arte, che si trovano a riflettere sul senso della vita, sull’arte, sulle ossessioni e sui segni che hanno contraddistinto il loro cammino e che li hanno “condannati”, su cosa sia stato per loro compiere il trapasso da un mondo all’altro, e cioè anche su cosa sia significato morire. Lettere tutte inviate ad un uditorio ignoto.

Da Bella Chagall, vedova del grande pittore russo, ad Arturo Toscanini, a Jacques Brel, a Sergej Sergeevič Prokof’ev, al giovane Guido Cantelli, successore e allievo di Toscanini, da Emil Cioran a Desprez e Kafka, molti  ardimentosi personaggi si incontrano tra le pagine di questo libro come nel corso di una passeggiata dentro a un cimitero insolitamente allegro.


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L’autore si cimenta nell’impossibile tentativo di far parlare ancora chi si è tanto ammirato e amato per quanto ha saputo inventare nel corso della vita, con ciò compiendo non un’opera di mero biografismo, ma di fine invenzione e di cordoglio.

Marc Chagall, “Il concerto” (1957, particolare)

Il racconto più breve del volume è quello titolato la Morte di Icaro, e ad avviso di chi scrive esso è proprio il più emblematico, perché nella sua assoluta brevità è condensato tutto lo spirito elegiaco e trionfante che anima quest’opera fatta di umana tenerezza, di allegria, e di raffinata cultura: “Dedalo dovete consolare, è lui che muore disperato. Io sono morto vicino al sole”.

La scommessa dell’autore è, anche, quella di individuare il nucleo ustionante di ogni anima che viene messa in scena, il “quid” della sua ricerca artistica ed esistenziale, e ciò conferisce al testo una particolare dignità, quella che viene dalla fedeltà che, pur nella finzione, l’autore ha osservato nel restituire la complessità della materia di cui si è fatto cantore.

Il libro risulta volutamente estraneo a qualsiasi possibile categorizzazione letteraria, ma è proprio in questa impossibilità di catalogazione e/o definizione che acquista la sua assoluta libertà, ed un suo personale spazio di azione e di vigore.

“O signore, dài a ciascuno la sua propria morte, / il morire che viene da quella vita / in cui egli ebbe amore, senso e pena”. Questi versi di Rilke, che riecheggiano all’interno del testo, sembrano contenere lo spirito che anima i vari racconti brevi, lettere apocrife, minimi appunti e resoconti, ritrovati o conservati, frammenti epistolari all’interno dei quali la vita e la morte fanno un girotondo che inverte le regole del tempo, divenendo un solo cerchio che nell’ultimo “atto” trova il proprio compimento, la propria circonferenza.

L’atlante che ne viene fuori è come un lungo commiato che non vuol saperne di finire, in cui ogni voce ritrova la parola, intona nuovamente la sua musica.

Il morire, per ognuna di queste figure, non corrisponde a un termine, nell’immaginazione dell’autore, ma alla possibilità di compiere il raccolto dopo la semina, la mietitura, la “mescita” svolta in vita, che continua poi a svolgersi non solo altrove, ma soprattutto attraverso le opere, i preziosi scrigni-amuleti di luce e sangue rimasti qui.

È un testo ineffabile e surreale, composto con scrittura elegante, asciutta, mai retorica o astratta, un omaggio e un tentativo di umana fratellanza, di raggiungimento estremo di quegli “altri” con cui l’autore intrattiene dialoghi intimi e turbati, un’opera che suggerisce che l’arte e la poesia e la musica sono, in verità, note suonate all’infinito su di un pentagramma che tradisce ogni legge fisica di tempo e spazio, per librarsi dentro l’anima del mondo, e poi posarsi, per dirla con Baudelaire, come un “ardente singhiozzo che rotola d’era in era/ e viene a morire ai piedi della Eternità”.

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