“Ora, piccoli miei/ Non abbiate paura/ché la luce/ ha penetrato/ l’arco delle vostre frecce”. Una parola che cerca la luce, questa è la nitidissima, prima direzione del verso e della ricerca di Riccardo Olivieri nel suo ultimo libro di poesia Restare vivi (Passigli, 2023). Ma anche la consapevolezza che il viaggio degli uomini sulla terra o è condivisione o non è. “Essendo io/ solo un punto/ posso venire attraversato/ da ovunque/(..) Invece – a essere in due –/ un solo raggio ci tiene, ci libera”.
La poesia italiana contemporanea è un giardino ricchissimo e appassionante perché si incontrano voci sinceramente autentiche, vivide, potenti. Riccardo Olivieri è una di queste voci, tra le più intense e originali. Si capisce dalla forma “levigata” e decisa del suo versificare: Olivieri è un uomo che vive a pieno la dimensione del presente. È un autore che ha radici saldamente ancorate al suo tempo, non è un nostalgico. Ha casa qui, nel suo e nel nostro mondo contemporaneo, dentro le sue contraddizioni. E ci avverte, sin dal titolo: prima ancora che il poeta, l’uomo-Olivieri dichiara: occorre restare vivi, “dobbiamo dire qualcosa/ se la gente prende il tram/ davanti al tremore di ognuno”.
L’esistenza non c’è se non la si racconta. Sin dalle primissime pagine ci si accorge che la voce che parla (quella del poeta e di più, della Vita che attraversa e ridice) è capace di attenzione plurale e cangiante. Lo sguardo di Olivieri è caleidoscopico, si infila nelle pieghe della quotidianità e degli affetti familiari ma allo stesso tempo rincorre il cielo, un Altro più in alto, qualcuno che benedice le sorti mortali e dà loro casa. Questo ancoraggio passa attraverso la moltiplicazione della vita, cioè la creazione, umana e artistica. “L’hai visto adesso/ che Alberto s’è girato un attimo a guardarti/ prima della festa/ Ho luogo qui/ non cercare più/ questo è il posto”.
Nei versi di Olivieri (totalmente privi di “artisticità” ma pieni di un grande ritmo che è dettato dalla stessa materia ardente che il poeta insegue) emergono l’amore per le radici, per la famiglia, per il figlio, la paura per la sua vita che cresce in un mondo inferocito, il timore per un buio che minaccia il tono limpido anche dei giorni chiari. Emerge uno dei demoni più pericolosi tra quelli che ci assediano, la paura. L’autore però richiama continuamente a sé la luce, la chiarità; si capisce che l’uomo che scrive, prima ancora che il poeta, è un essere umano che vive con la necessità sempre viva di tornare vicino al nucleo primario, quello primitivo, inviolato, di tutte le cose conosciute.
Chiarissima in Olivieri è anche la percezione che l’io contemporaneo rischia di sfaldarsi e di finire per aderire ad un “falso sé” che prende il posto del sé autentico, un “manichino” (da cui il titolo di una omonima sezione) che maliziosamente assume le sembianze dell’io (io che invece scompare nel mare delle sue scissioni, così come nella realtà virtuale che somiglia sempre più a una nebbia).
Nel suo percorso l’autore non manca di confessarci (sempre con grande ritmo e grandi scarti tra questioni minime e “assolute”) le emozioni più “fragili”, quelle più ferite con cui attraversa l’esistenza: non censura il tremore, la disperazione per gli ultimi anni di dolore collettivo e per le guerre, quelle vicine ai nostri confini ma anche quelle sottili e impalpabili che minacciano in particolar modo le vite dei giovani. “La gente ridotta a tifoseria”, constata amaramente Olivieri, ma anche e soprattutto la retina opaca che ha adombrato lo sguardo di molti. Lo spegnimento della inclinazione allo stupore.
Ciò che più colpisce, oltre alla impressionante capacità di tenere insieme (dote che pertiene solo agli autori più grandi) il particolare e l’Assoluto, di procedere in orizzontale rimanendo saldamente fedele ad una chiamata verticale, è la estrema domanda di questo autore che chiede alla poesia di essere qualcosa di più che il frutto sapientemente elaborato di una vita vissuta. Ecco, appare in questa opera la tenace scommessa sull’arte: che non sia solo orpello o gratificante ma autoriferito passatempo, che sia strumento indispensabile di crescita e apprendimento; per dirla diversamente, l’energia creativa consente all’uomo di procedere in avanti e accrescere il suo legame con le cose o no, si domanda e domanda Olivieri. Partorendo si vive, si comprende, si affonda in profondità, oppure evocare la vita non la avvalora, non la illumina? È una poesia “di pelle”, epidermica, quella di Olivieri.
I soggetti prediletti sono di volta in volta i nomi delle persone care, le notizie dal mondo cui sente profondamente di appartenere, le strade solite ma sempre eloquenti, anche le storie di uomini apparentemente insalvabili, i dittatori, cui l’autore chiede di ricordare come “tua madre ti teneva la mano”. C’è un’affettività profonda e nuda, vicina al cuore delle cose, che commuove il lettore in certe pagine: “La tua schiena sarà sempre qui? Io la voglio sempre qui / sotto la mia mano”, e insieme la potenza della scommessa, sulla vita e il suo nocciolo duro di splendore, sulla possibilità tutta umana di rifiorire, di dare ancora senso, chiedendolo, ai giorni che si vivono, fuori da ogni collaudata acquisizione o pacificazione intellettuale. C’è in Olivieri la posa sorpresa di chi scrive accorgendosi che la mente non contiene la materia, dunque ancora più vivacemente la insegue, per amore, per dire ancora: “Eppure rinasce/sfrontatamente/in faccia agli aculei/il tuo pensiero fiore”.
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