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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ “La trappola dei confini”: in Carnia nel ’45 tra eroismi, vigliaccheria e crudeltà

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LETTURE/ “La trappola dei confini”: in Carnia nel ’45 tra eroismi, vigliaccheria e crudeltà

Antonio Napoli
Pubblicato 10 Febbraio 2024
(Pixabay)

(Pixabay)

Ne "La trappola dei confini" Geppino d'Alò racconta la storia del comunista Camillo Burgos e della sua famiglia, nella Carnia del secondo conflitto

A proposito di foibe (il 10 febbraio ricorre il Giorno del Ricordo) e di quello che è successo tra gli ultimi mesi della seconda guerra mondiale e il primo dopoguerra lungo i confini del Friuli-Venezia Giulia, merita il romanzo-racconto scritto da Geppino D’Alò e pubblicato dalla piccola casa editrice Ad est dell’equatore (2023), con un titolo assai evocativo: La trappola dei confini. Il racconto è di grandissimo interesse e la lettura assai scorrevole, grazia ad una scrittura asciutta ed essenziale. Per di più l’autore porta alla luce una pagina della nostra storia che merita un’attenta riconsiderazione, proprio perché – come giustamente sostiene D’Alò – solo “chi vive su un confine può capire”. Spesso sono proprio i confini a produrre quella “paura del diverso che genera la violenza”.


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Ancora più intrigante dei fatti raccontati è la genesi dell’opera. Intanto perché D’Alò è napoletano, e non può che sorprendere la cura e la sensibilità con cui ha raccontato vicende – realmente accadute – nella Carnia del 1945. Alla fine tutto ha una spiegazione e nel nostro caso ci viene fornita dallo stesso autore, quando ha rivelato, durante la presentazione svolta alla Camera lo scorso gennaio, che il libro è un omaggio a un amico conosciuto durante il suo lavoro di funzionario del PCI a Botteghe Oscure negli anni 70. Al ricordo del vecchio commilitone di tante battaglie ha partecipato anche Bruno Magno, anche lui funzionario e grafico del PCI, assai noto perché creò il simbolo della Quercia scelto da Occhetto per il PDS, che ha curato la copertina del libro.


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L’amico in questione è Camillo Burgos, diventato comunista a dispetto della sua nobile discendenza. Giovane rampollo di una delle più blasonate e ricche famiglie friulane, non aveva esitato negli anni Settanta a schierarsi con il ramo della famiglia che aveva simpatizzato con la lotta partigiana. A cominciare dal padre, il famoso ammiraglio che l’8 settembre 1943 si era rifiutato di consegnare il suo cacciatorpediniere ai tedeschi e aveva, dopo un viaggio avventuroso, portato in salvo la nave fino al porto di Malta. D’Alò è incuriosito dalla storia personale del suo amico e accetta volentieri l’impegno – ora che si è dato alla scrittura – di raccontare la storia di una famiglia così duramente segnata da quei mesi a cavallo della seconda guerra mondiale. D’Alò però aggiunge al racconto una sua personale conoscenza del territorio, avendo avuto per qualche anno il difficile compito di dirimere le vicende interne del litigioso – quanto piccolo – partito comunista friulano. Ma da scrittore coscienzioso si è poi posto il problema di verificare sul campo tutte le informazioni raccolte, soggiornando per lunghi periodi nel Nordest, riscoprendo i luoghi della storia e ritrovando amici e vecchi militanti.


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Il centro della storia è una vicenda poco conosciuta ma ampiamente documentata dagli storici. Sul finire della guerra i tedeschi, ormai in ritirata, affidarono ad un corpo di cosacchi, in fuga dall’Unione Sovietica con tutte le loro famiglie, il controllo della Carnia. Così per diversi mesi quella zona di confine fu sotto il controllo dell’esercito tedesco, dei fascisti della repubblica di Salò e dei cosacchi del Don. La storia della famiglia dell’ammiraglio Burgos (citato nel libro con il solo nome di Comandante) si intreccia con questa vicenda, in particolare perché un’altro ramo della famiglia si schierò invece apertamente con il fascismo, dando pieno sostegno alle forze italo-tedesche e sostenendo l’occupazione cosacca.

Il racconto scorre veloce, tra casi di eroismo, esempi di pura vigliaccheria e crudeltà, episodi di vita quotidiana e di sopravvivenza. Da una parte e dall’altra. Comprese le angherie e le violenze che gli stessi partigiani italiani hanno dovuto subire dai loro colleghi jugoslavi, che miravano a cacciare i tedeschi ma contemporaneamente desideravano annettersi quella parte di territorio. Quelle vicende – ricorda D’Alò – avevano origine da una diffidenza reciproca covata per secoli e sicuramente non trovarono soluzione con gli accordi internazionali sottoscritti dagli alleati più di tre anni dopo la fine del conflitto.

L’episodio che D’Alò ha citato nella presentazione alla Camera riassume gran parte della vicenda. “Il padre del segretario del PCI friulano che ho conosciuto nel 1975 era un operaio dei cantieri di Monfalcone che aveva deciso di aderire al regime di Tito e si era trasferito nei cantieri jugoslavi. Nei giorni immediatamente successivi alla rottura tra Tito e Stalin nel 1948, e di conseguenza tra Tito e lo stesso Togliatti che si schierò senza esitare con i sovietici, fu imprigionato con tutti gli altri comunisti italiani presenti in Jugoslavia. Fu liberato dopo “solo” 16 anni, nel 1964, per intercessione di Luigi Longo e dopo la morte di Togliatti”.

A riprova del fatto che chi vive sui confini difficilmente dimentica, i fatti si sedimentano e ritornano a galla appena li evochi, nessuno ha voluto organizzare la presentazione del libro in Friuli, nonostante le promesse dell’amico Burgos, purtroppo morto un anno fa, appena in tempo per leggere le bozze.

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