L’esperienza cristiana è complessa e paradossale. E di conseguenza è ancor più difficile parlarne. Cristo ha detto che solo i bambini e quelli che sono come loro entreranno nel Regno di cieli. Per l’esperienza della psicoanalisi vale forse qualcosa di simile. Se poi è in questione l’opera del grande psicoanalista francese Jacques Lacan, tale affermazione è ancora più vera. Perché questo valore aggiunto? L’apporto lacaniano costituisce una facilitazione in questo cammino o un ostacolo, con l’apparenza di una vicinanza sospetta? Temi che si tratta di affrontare attraverso un sapere testuale essenziale sia per la teologia che per la psicoanalisi.
Nella società odierna si sperimenta, io credo, ancor più gravemente, ciò che Freud chiama il disagio della civiltà, quella dimensione strutturale che attraversa da sempre e ovunque il vivere associato, riflesso di quanto sperimenta il soggetto, preso nelle sue ripetizioni e mancanze.
Nel recente volume Un Dio a parte. Lacan e la teologia (Glossa, 2016) ho cercato di mettere in evidenza come si possano oggi affrontare efficacemente le sofferenze e le contraddizioni che accompagnano la nostra vita, poco o tanto “valle di lacrime”, a partire da alcuni elementi tipici del discorso psicoanalitico e in particolare lacaniano, facendolo dialogare, nella misura del mio possibile, con figure teologiche pur apparentemente non omogenee. In particolare il grande teologo Hans Urs von Balthasar.
Lacan con von Balthasar? Sembrerebbe osare troppo. Eppure, si tratta di osare costruire un percorso.
Entrambi, mi sia consentita l’audacia dell’accostamento, si rifiutano – nei loro diversi linguaggi – di affrontare il sintomo, ciò che – con Lacan – potremmo indicare con semplicità estrema come quel “non va”, e con von Balthasar non come qualcosa da diagnosticare, correggere, riportare a un benessere standardizzato, ma come occasione di elaborazione e cambiamento, come apertura di qualcosa di inedito.
Nel corso del suo lungo insegnamento Lacan mostra, al seguito di Freud, che il nuovo non viene dalle proprie elucubrazioni, né dalla logica di un discorso che presume di comprendere e controllare, ma dal lavoro che apre uno spazio di parola che – attraversando le poliedriche manifestazioni dell’essere, eccedendo i differenti orditi del linguaggio – dà forma alla verità singolare di ciascun soggetto, che si rivela attraverso la destituzione di quella sfera della persona che la trattiene nei suoi schemi narcisistici, sgabello al suo esibirsi, al suo occultare le sue mancanze inseguendo uno sguardo che sostenga il suo apparire ideale e perfetto. Occultando la sua nodale “mancanza-a-essere”, come Lacan definisce la struttura paradossale di un soggetto centrato nella dialettica del desiderio che l’inconscio mostra.
Nel tentativo di annodamento di questi tre concetti fondamentali che articolano il dispositivo della psicoanalisi lungo il solco tagliente della verità freudiana (oggi particolarmente maltrattata: rifiutata nel suo realismo o banalizzata) si può reperire la traiettoria che unisce il discorso dell’analista con l’esperienza del mistico nel luogo di una Kenosi, cioè di una esperienza radicale di alterità e delle sue conseguenze che non sono solo di nostalgia, ma di paradossale pienezza.
I neologismi stessi dell’operazione analitica inventati da Lacan – mancanza-a-essere, parlessere, annodamento borromeo dei registri dell’esperienza – dicono di un movimento della riflessione che, pur di non cedere sull’umano come irriducibile e e singolare enigma, è approdato fin sulla soglia di una “ontologia” davvero particolare, ha portato alla luce la claritas dell’essere, e anche nei luoghi dove il reale, l’immodificabile, il cuore intrattabile del sintomo, è più opaco.
Lo schema che da questa direzione della cura e della riflessione si può finalmente inferire è uno schema “quaternario”, che rispecchia un’analogia originaria presente nell’attestazione biblica: da un lato i tre Nomi del Padre e dall’altro il buco, o il reale del corpo: la “pietra scartata” che, nello scartare del soggetto preso nel percorso della sua singolarità, è destinata a diventare testata d’angolo. In un’analogia scabrosa con quel che Lacan chiama sinthomo? È quel che si potrebbe mettere alla prova… È certo che in gioco c’è un lavoro di invenzione, anche poetica, che finisce per trovare forme nuove di scrittura del soggetto. Lacan le indica attraverso l’eccezionalità della posizione di James Joyce, Von Balthasar nel suo proprio accostarsi al lavoro della teologia con parole nuove, e anche direttamente poetiche.
Che Lacan – nel suo cercare un punto di ancoraggio sempre più solido alla catena significante, alla dimensione di scivolamento ermeneutico del linguaggio – arrivi a interrogare i punti più caldi della rivelazione biblica (in fondo non diversamente da quanto aveva precedentemente cercato di fare Freud con la sua ricerca “archeologica” sul suo Mosè) conferma quanto von Balthasar arriva a sostenere nel cercare di proporre un nuovo metodo alla ricerca teologica: è nelle strutture psichiche che si celano i fondamenti di un reale dell’alterità che è presenza e non perenne rimando. In altri termini – e con le parole stesse di Balthasar – un teologo può davvero esistere solo se si sia prima immerso nelle misteriose strutture dell’essere creato.
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Il volume di Rossano Gaboardi “Un Dio a parte”. Che Altro? Jacques Lacan e la teologia viene presentato venerdì 14 maggio, ore 17.30 a cura di Prologos. Gruppo per interrogare, scoprire, insegnare la filosofia. Per il link all’incontro in piattaforma Zoom scrivere a: [email protected]
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