“Se solo una delle due/ quella più chiara pianse/ se si tagliò i capelli/ perché non erano così rossi o un dito/ se usò le forbici o preferì un coltello/ questo io non lo so/ non amo le separazioni/ ma era necessario un atto di forza/ anche per il semplice germogliare di un seme/ farsi del male era necessario”.
La contraddizione abita il mondo. E non si scioglie. Settembre è un inizio e seduce i cuori di tutti, soprattutto di chi non si è salvato. Se essere autori significa “aumentare” il mondo, viene da pensare ad Eva Laudace e alle bambine che ha partorito, che giocano a rincorrersi intorno a lei e a chi le incontra, che piangono in silenzio e poi spariscono.
Nel momento in cui nasce un’opera d’arte, il mondo cambia il modo in cui continua ad esistere. Le bambine dai capelli rossi (Capire edizioni, 2022) è l’ultima fatica in versi della poetessa abruzzese, nata a Vasto ma di stanza a Bologna ormai da anni, che non a caso ridice in poesia le note dure della sua terra d’origine e le sfumature dolci della città dei portici, al quasi nord del nostro Paese.
Lo strazio appena ristorato, un poco accarezzato, era il magma della sua precedete storia, Sua altezza di baci (Capire edizioni, 2018) ed era già tenere il dolore nelle mani, ad ogni pagina (e intanto una carezza chiara sulla nuca: “Da sempre l’amore per me / è un atto migratorio / gentile si alza e se ne va”). Se un poeta scrive “tutto mi chiede tutto di me” allora ci si può fidare, non di lui o di lei, ma del viaggio che compie, a partire dal suo io scentrato. Chi viene dal cuore di una terra violenta e difficile, ma anche intarsiata di delicatezza estrema, per destino tende a rincorrere alcune visioni dolorose. Eva Laudace sussurra a bassa voce l’abbandono e la perdita, con indicibile dolcezza, da tanto tempo. E con Le bambine dai capelli rossi tocca il punto più doloroso del femminile ferito, quello che non è capace di rimarginarsi, che rimane dolente.
Con loro, per ogni donna e uomo lettore che si avventura nei loro girotondi e nascondigli, ogni angolo è precipizio e incontro con la donna che forse è rimasta bambina, ferma al centro di un bosco ad aspettare chi non è mai arrivato a salvarla. Noi, a volte, non veniamo salvati. Le donne non vengono salvate. La Laudace non viene ricattata dal lieto fine necessario da scrivere per forza.
Ed è stupefacente vedere, nel tempo che viviamo (così ferocemente schierato nella lotta di genere apparentemente a favore delle donne) un’artista che fa l’appello alle donne dentro di sé, a quelle fuori, le chiama dentro una scena al buio. Poi le fa piangere e restituisce, miracolosamente, una luce, piena di sangue. La poesia fuoriesce dai confini della carta, da prima ancora che nascesse l’opera la Laudace raccontava delle sue bambine stanche, forse cercandole, non conoscendole così bene neanche lei, ma senz’altro sentendole vicino.
Nel caso di Eva Laudace la parola scritta viene dopo lo spettacolo che offre con il corpo e il canto, essendo una notevole performer ed interprete, anche del suo stesso repertorio. L’opera di questa autrice fa eco al verso di un altro autore (è così la letteratura, è capace di gemellare senza chiedere permesso), “Sei geloso di tutto quello che stai perdendo/ re di tutto il perduto”. Finalmente, “benvenute anime sconfitte, siete così splendide dentro la vostra perdita, non guarite mai, non vincete mai. Non diventate anche voi portatrici di una bandiera. Non occorre essere vittoriosi per essere re e regine. Occorre, più ferocemente, dire di sì al proprio unico e irripetibile viaggio”.
Viene da pensare questo mentre si seguono le bambine nel loro pianto e nelle loro capriole. E sempre con il vento freddo dell’abbandono alle spalle, mentre si ascolta la loro confessione: “La prima bambola che ho fatto/ è stata mio padre/ ma senza quei baffi/ era mio padre e non mi voleva./ Coperto di api ripeteva/ ‘Quando meno te lo aspetti sparirò’”.
E non è un azzardo dire che anche Tolstoj rivive con Anna Karenina nel cuore di queste bambine. Rivivono tutte le guerriere e le schiave, le donne senza un tempio di ogni era. L’errore e la ferita così vividi, il torto e la deviazione, il male subìto e non negato anche nella condanna, con tenacia, sono le gocce d’acqua scura delle eroine del mondo. Le bambine rossicce, figlie di Eva, sono regine con la corona storta. Non trovano vie di fuga. Sostano dentro l’ombra (e dice il vero, chi dice ombra?).
È durante le sue letture (cercatela e ascoltatela, ascoltatele, ora sono in tante) che ci si accorge di come la dignità che abita il dolore resta integra e salva se non viene urlata. Le ferite vengono offerte, semplicemente. Senza ricatto. E, ferite, sorprendentemente, queste creature attendono ancora un sogno: “Davanti ai cancelli delle favole/ chi aspetta il suo turno/ per essere amata/ ha tutto il tempo di avere paura/ ogni petalo è un mostro/ che ha tenuto per mano/ coi fiori sugli occhi la testa a punta/ e molti animali randagi/ nelle vene/ tu sai che sono una bambina”.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.