Non è facile scrivere di un libro di poesie. Non è facile perché ogni poesia è un mistero e un libro di poesie è la raccolta di tanti misteri.
Non è facile perché ogni poeta dice quel che deve dire in quel modo lì, in frasi ed in versi, in parole interrotte, rime, pause, e non ha un altro miglior modo per dirlo e non si può interpretare o ridire meglio in altro modo.
La poesia è un mistero. Se chiedi ad un poeta di spiegare una sua poesia, probabilmente rimarrà in silenzio, e poi forse ti dirà che una poesia è inspiegabile, poiché per lui quella forma è il modo migliore per dire quello che voleva comunicare in quel frangente. Ogni altra parola sarebbe una complicazione.
Ma non è solo per questo che per me non è facile scrivere del libro di Marta Bardazzi.
Marta io la conosco da quando è nata, i suoi genitori sono miei carissimi amici dal tempo della scuola superiore e poi siamo stati compagni di università a Firenze.
Diciamo che più che fare una “recensione”, per cui non ho assolutamente i titoli, mi sento un testimone, e qui voglio raccontare quello che è stato il primo emergere ai miei occhi del suo modo di guardare la realtà.
Settembre 2001, Marta stava per compiere 7 anni, all’epoca viveva a New York con la sua famiglia. Sabato pomeriggio, primo giorno di settembre, di quel settembre newyorkese che dieci giorni dopo avrebbe conosciuto il fatto che ha cambiato in maniera drammatica il corso degli eventi di questo secolo.
Eravamo usciti dal cinema, io ero a New York per lavoro, e come spesso accadeva mi trattenevo nel week-end per stare un po’ con i miei amici, i genitori di Marta, Marta e le sue sorelle, Anna e Francesca.
Eravamo usciti dal cinema tutti insieme, tardo pomeriggio il cielo imbruniva dopo una giornata molto calda. Le luci sulla quarantaduesima strada angolo Broadway scintillavano fisse o intermittenti, i pannelli pubblicitari enormi sopra le vetrine o ai piedi dei grattacieli rimandavano immagini e video in continuazione, le automobili, i taxi soprattutto correvano a sbalzi, la gente riversa per strada si incrociava evitandosi e si fermava aspettando il proprio turno ai semafori in quella corsa verso i ristoranti o i teatri o i cinema nel sabato sera di fine estate.
Il film che eravamo andati a vedere era Shrek, uscivamo pieni e commossi per quella storia, “politically incorrect”, bambini ed adulti.
Siamo entrati di corsa in un taxi, avevamo fissato di cenare in un posto vicino all’appartamento dei miei amici e il padre di Marta che usciva da lavoro e non era venuto al cinema ci avrebbe raggiunti al ristorante. Nel silenzio del viaggio, con le luci della città che si riflettevano sui vetri del taxi, ad un certo punto abbiamo iniziato a parlare del film.
Ognuno diceva quello che lo aveva colpito di più e quello che gli era piaciuto di più del film, la mamma, le tre bimbe, ripercorrevamo la vicenda della “fiaba” appena vista. Ad un certo punto io dico che la scena secondo me più bella e che mi portavo a casa era quella dove Shrek ed il ciuchino distesi sotto il cielo stellato durante il loro cammino si interrogavano sul futuro e sul passato e sul destino.
Marta, non diceva niente, mentre le sorelle e la mamma citavano altri frammenti di film che gli erano rimasti in mente con entusiasmo.
Ad un certo punto Marta, battendosi le dita delle mani sulle tempie, rompendo il suo silenzio, lungo la Park Avenue nell’ultimo tratto di strada che ci portava al ristorante e che il taxi percorreva a scatti nel traffico serale di Manhattan, disse “Io ho una domanda ma non la so dire… è troppo difficile…”.
Marta si sforzava, era diventata tutta rossa, nel taxi ora si sentiva soltanto la musica a basso volume della radio. Tutti eravamo in silenzio. Marta rimase in senza dire nulla per un po’, poi guardando fuori i magnifici grattacieli che ci scorrevano a fianco ormai costellati da finestre illuminate nella sera ci disse le sue domande. “Che cosa sarebbe il mondo se noi non ci fossimo? E perché noi ci siamo? Chi siamo noi?”. Si rimase pensosi in silenzio nel taxi che arrivava a destinazione. Sul marciapiede il babbo delle bimbe ci aspettava sorridente.
Mesi dopo, era l’aprile del 2002, tornai per lavoro a New York. La città era ancora sconvolta da quello che era successo l’11 settembre. Quando entrai in casa dei miei amici invitato a cena da loro, al ventesimo piano di un grattacielo dalle cui finestre si vedeva un pezzo di fiume, Marta mi venne incontro di corsa accogliendomi con un foglietto di carta in mano, dove aveva scritto a lapis, in lettere stampatello, in inglese, una poesia. Mi disse che le era venuta in mente in seguito al dialogo che avevamo avuto mesi prima nel taxi dopo il film.
La poesia finiva cosi “Far from my house / in the darkness of the night / I saw a big star and I asked/ Who are you mistery?/ Can I meet you in my daily life?”
Leggendo Scalzi davanti ad un caffè (Albatros 2021), opera prima di Marta Bardazzi, risento quelle domande come sottofondo di ogni pagina del suo componimento e rivedo quella bambina commossa, con lo sguardo e il suo piccolo dito puntato verso la stella più luminosa del cielo di New York.
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