Pubblichiamo alcuni stralci dell’intervento di Padre Mauro Giuseppe Lepori, Abate generale dell’Ordine Cistercense, in occasione della presentazione del volume di Vladimir Solov’ëv “Fëdor Dostoevskij” (a cura di Giuseppina Cardillo Azzaro e Pierluca Azzaro, Cantagalli 2021) che si è tenuta martedì 5 ottobre 2021 presso l’Aula Papa Benedetto XVI, Campo Santo Teutonico, Città del Vaticano.
Se c’è una parola che è risuonata continuamente in me leggendo le luminose pagine dei tre discorsi di Solov’ëv su Dostoevskij, questa parola è “profezia”. Solov’ëv ci aiuta a capire che abbiamo bisogno di profezia e mette in luce la potenza profetica di Dostoevskij. In questo, Solov’ëv si rivela lui stesso come un pensatore estremamente profetico. Quello che coglie e descrive in Dostoevskij è proprio la profezia di cui il mondo ha bisogno.
È impressionante leggere questi testi dentro il bisogno di profezia che vive il mondo attualmente, oppure confrontandoli con l’apporto di uomini e donne che nelle Chiese e nella società incarnano questa profezia per noi, come papa Francesco, i suoi predecessori, o le grandi figure della Chiesa Ortodossa.
Solov’ëv ci fa capire che il mondo d’oggi, più che di profezie, ha bisogno di profezia, cioè di uno sguardo capace di scorgere una realtà presente che promette l’infinito. È proprio perché ci permette di vedere una realtà presente che la profezia non è utopia, e che essa per questo incarna una speranza, una speranza fondata sulla fede. Leggendo Solov’ëv e la sua lettura di Dostoevskij ci si sente accompagnati a scorgere di fronte a noi, fra di noi e in noi il seme della novità che sola può salvare il mondo e quindi dare speranza contro ogni speranza.
Esattamente vent’anni fa mi fu chiesta una conferenza per un convegno di artisti cristiani sul tema “Verità, bellezza e pace”. In quella conferenza avevo menzionato la visita che Fëdor Dostoevskij, dopo la morte di suo figlio Alëša, fece nel 1878, accompagnato da Solov’ëv, all’eremo di Optina dove incontrarono il grande monaco e starec Amvrosij, che ispirerà la figura dello starec Zosima ne I fratelli Karamazov. Dostoevskij ritornò dall’eremo di Optina tranquillizzato e notevolmente rappacificato. Solov’ëv ricorda questo episodio in una nota del primo discorso. Mi ha sorpreso, leggendo queste pagine di Solov’ëv, quando alla fine del secondo discorso mette in luce l’armonia che Dostoevskij ha incarnato fra la bellezza, la verità e il bene.
Nella conferenza che feci vent’anni fa avevo portato come esempio di questa armonia fra le tre realtà – verità, bellezza e pace (e penso si possa identificare il bene con la pace) –, proprio quell’incontro fra Solov’ëv, Dostoevskij e lo starec Amvrosij. Dicevo che si poteva considerare Solov’ëv come l’uomo della verità, Dostoevskij come l’uomo della bellezza e lo starec Amvrosij come l’uomo della pace o, se volete, del bene. Il filosofo Solov’ëv e l’artista scrittore Dostoevskij si recano assieme dal monaco Amvrosij e il frutto di questo incontro fu per Dostoevskij la pace del cuore e un nuovo slancio di ispirazione.
Questo incontro fu, a mio parere, come un paradigma, come un’esperienza in cui la realtà dei valori di verità, bellezza e bene ha potuto avvenire, incarnarsi nell’ambito di un’amicizia. I grandi valori diventano realtà sperimentabile perché avvengono in un’amicizia. (…)
Dostoevskij accenna così alla grande profezia che è la Chiesa, la Chiesa come mistero, come Corpo mistico di Cristo, che non si limita mai ad una particolare confessione. La Chiesa come Sposa di Cristo, la Chiesa che è l’umanità rinnovata, riunita, o come dice la Lumen gentium, “il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (§1).
Proprio questa Chiesa è una realtà presente che promette l’infinito. La compagnia, l’amicizia, magari di sole tre persone come Dostoevskij, Solov’ëv e lo starec Amvrosij, oppure di Alëša con i ragazzini che lo circondano, o anche come noi stasera, è una realtà presente, un germe presente, una realtà ecumenica, che promette l’infinito; e l’infinito è la fraternità universale riconciliata in Cristo, la fraternità che non è soltanto un progetto ideologico, politico, economico, ecologico, che prima o poi scade in violenza, ma una speranza, fondata dalla e sulla fede in Cristo presente, e che si realizza come carità.
Questo giudizio, che dopo 140 anni da quando fu espresso è di una freschezza assolutamente sconvolgente, ci sorprende per la sua adeguatezza alla situazione in cui ci troviamo, alle crisi globali che attraversiamo. La lettura che Solov’ëv fa di Dostoevskij ci aiuta a capire che il fondo sempre positivo delle crisi dell’umanità è il fatto che viviamo dentro la speranza di una fraternità universale che già c’è, che già è data in Cristo morto e risorto per noi, ma che non è ancora compiuta, è sempre da avvenire, fino alla fine dei tempi, fino alla Parusia. Essere coscienti che siamo dentro questa tensione è un grande aiuto a vivere e a cogliere l’essenziale, il positivo, l’estremamente positivo che ci è dato di vivere sempre e comunque. (…)
Io sono pieno di gratitudine, perché questi testi di Solov’ëv, che vanno veramente meditati, e sono di una bellezza che incanta, questi testi in fondo ci gridano un’esigenza assolutamente irrinunciabile se vogliamo voler bene al mondo, all’umanità, irrinunciabile per i discepoli di Cristo che siamo, che bene o male lo seguiamo, in tutte le Chiese: l’esigenza fondamentale per tutti è che torniamo a fissare gli occhi su Cristo, a contemplarlo, ad ascoltarlo, a dirigere l’attenzione su di Lui, ma veramente su di Lui, non sui dettagli delle nostre interpretazioni di Cristo, ma proprio su Cristo presente che ci promette una Salvezza totalmente già compiuta.
La grande profezia di Dostoevskij, come di Solov’ëv, è che la bellezza di Cristo salverà il mondo se i suoi discepoli, pur peccatori, perché peccatori, fisseranno insieme gli occhi su di Lui per trasmettere la sua luce al mondo.
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