Aprendo il libro di Giulia Iannuzzi Geografie del tempo. Viaggiatori europei tra i popoli nativi nel Nord America del Settecento (Viella, 2022), risulta difficile non farsi sorprendere dalla voglia di riprendere in mano il romanzo di James Fenimore Cooper, L’ultimo dei Mohicani. Sembra quasi di poter udire in lontananza l’eco dei tamburi e delle cornamuse, delle trombe e dei violini che di quest’ultimo accompagnano la meravigliosa trasposizione cinematografica interpretata da Daniel Day Lewis nell’ormai lontano 1992. Forse, proprio la musica – per eccellenza un ponte tra culture aperto alla contaminazione – è un buon punto di partenza per parlare di Geografie del tempo. Man mano che ci si addentra nella lettura, il mondo descritto dall’autrice pullula di variegata umanità: viaggiatori, avventurieri, esploratori, mercanti di pellicce, tribù indiane. La mente naviga sui grandi fiumi dell’entroterra americano, ne osserva le vaste praterie, scruta le creste delle catene montuose, ora innevate, ora nebbiose, ora aride o popolate da foreste. L’opera spazia dalle umide regioni del Golfo ai torridi deserti dell’ovest, fino ai ghiacci dell’Alaska e ai freddi mari della Baia di Hudson.
Tuttavia, nell’opera di cui parliamo c’è molto di più. Iannuzzi ci racconta una storia complessa, affascinante, insospettabile – direi – per gran parte del pubblico contemporaneo. Le domande centrali che animano il dipanarsi del volume sono questioni allo stesso tempo antiche e di bruciante attualità. Come si elabora culturalmente l’incontro con l’altro, con il diverso da noi? Difformità di lingua, cultura, storia si traducono sempre in uno scontro, in una gerarchizzazione esclusiva e discriminante o possono produrre civiltà? In che direzione viaggiano le contaminazioni e gli scambi culturali? Cosa passa e perché? Com’è trasmesso questo incontro ai posteri, come influenza il “presente (del) futuro”?
A questi interrogativi l’autrice risponde raccontando le esperienze dei viaggiatori europei nel Nord America del XVIII secolo. La metà settentrionale del continente, infatti, nell’epoca di cui parliamo è ancora un territorio caratterizzato da un fondo di primitività indomata. In questo vasto spazio si incontrano e scontrano col grande mosaico di popolazioni native diverse culture europee o di europea matrice: inglesi, spagnoli, francesi, russi, statunitensi. Tra i resoconti più significativi, vi sono i Nouveaux Voyages […] dans l’Amerique Septentrional (1703) del barone francese Louis-Armand de Lahontan, che “nell’inverno del 1688 compie una spedizione esplorativa a sud di Michillimackinac, lungo quella che egli chiama “Rivière longue”, probabilmente il Mississippi, dove incontra altre popolazioni native”, o la Histoire et description générale de la Nouvelle-France (1744) del gesuita François-Xavier Charlevoix. L’itinerario del seguace di Ignazio di Loyola non ha nulla da invidiare alle più grandi storie di avventura. Nel 1720, dopo aver raggiunto le coste del Québec, “segue il fiume St. Lawrence, passa per la regione dei Grandi Laghi, Montreal e Michillimackinac, quindi oltrepassa il lago Michigan, raggiunge l’Illinois e discende lungo il Mississippi. Imbarcatosi per Santo Domingo, un naufragio lo costringe a tornare in Florida”.
Non solo viaggiatori francesi, però. John Lawson, nel suo New Voyage to Carolina (1709), “Attraversa e descrive un territorio non mappato prima, sul quale le conoscenze degli europei sono largamente carenti, fatto che contribuisce alla fortuna dell’opera”, mentre Cadwallader Colden pubblica nel 1727 la parte iniziale della sua History of the Five Indian Nations, che “si evidenzia per l’interesse nei confronti dei costumi, delle forme di organizzazione politica, delle culture delle popolazioni dell’area canadese”, e poi ancora le esplorazioni di James Cook nel Pacifico americano tra il 1778 e il 1779.
La ricca presentazione di resoconti di viaggio (non esauribile in queste poche righe) culmina e si conclude cronologicamente con gli “accounts della spedizione esplorativa capitanata da Meriwether Lewis, assieme al tenente William Clark tra 1804 e 1806 a ovest del Mississippi, nella neo-acquisita Lousiana statunitense. […] Tra gli obiettivi che Thomas Jefferson propugna nel promuoverla presso il Congresso, l’esplorazione geografica e lo stabilimento di relazioni diplomatiche con le popolazioni native fanno tutt’uno con programmi di espansione coloniale…”. Insomma, prodromi di Dottrina Monroe, battesimo dei moderni Stati Uniti d’America.
I nomi dei popoli incontrati dai tanti viaggiatori sono quelli a cui ci hanno abituati il cinema e la letteratura, senza però averci mai restituito la loro complessità, la diversità, la contradditorietà perfino; di lingua, di sistemi politici, di credenze, di tradizioni, di usi e costumi, e chi più ne ha più ne metta. In fondo, forse, una certa idea pop del mondo nativo americano ha la sua radice profonda proprio nelle interpretazioni date dai visitatori americani di quest’epoca tumultuosa. Chickasaw, creek, choctaw, cherokee irochesi, chi erano davvero costoro? O meglio, come vennero percepiti, descritti, “costruiti”? Vi è in questo processo, osserva l’autrice, una manifesta volontà proto-etno-antropologica.
Innanzitutto bisognava dare loro un posto nella storia. Selvaggi, primitivi, barbari? Come si collocavano nel tempo questi gruppi umani rispetto alle società europee che da due secoli si stavano proiettando ai quattro angoli del mondo? Ogni etichetta, ogni definizione portava con sé una mentalità, un’idea precisa nel tentativo di rispondere alle domande sorte fin dai primi incontri con i nativi americani, nel Cinquecento. Il termine “barbaro” era connotato da tempo immemore da un senso di irrisolvibile negatività. Non vale la stessa cosa per le parole “selvaggio” e “primitivo”, che inquadrate nel clima culturale illuministico inseriscono i nativi in un diverso momento della storia. Selvaggi come “specchio semi-immobile di epoche remote, fonte per un’osservazione diretta del proprio passato, dell’infanzia dell’umanità”. Primitivi “nel senso di vicino all’origine, vicino all’uso degli antichi progenitori, però già adoperato in contesto proto-etnografico, applicato a usi, costumi quotidiani e religiosi, elementi linguisitci”.
Tuttavia, in questo sforzo di comprensione vi è necessariamente classificazione, esclusione, gerarchizzazione. Se da un lato ciò è funzionale al rafforzarsi dell’idea di “europeo” tra i viaggiatori di varia provenienza (francese, inglese, scozzese, ecc. ecc.) del vecchio continente, si pongono le basi di una nuova visione dell’umanità, e “la categorizzazione di gruppi distinti in base al colore della pelle diventa comune in discorsi e trattati […] sostituendo altre distinzioni prima prevalenti, come quella tra cristiano e pagano”. Ci troviamo qui in un dedalo complesso, al crocevia tra il mito del “buon selvaggio” e i drammi dell’imperialismo europeo del secolo successivo.
Chi possiede la storia, quindi, esercita un potere, e per esercitare il potere ci si deve impadronire della storia. È per questo che gli europei si sforzano di inquadrare i nativi americani all’interno di coordinate cronologiche e culturali a loro familiari, di storicizzarli con criteri che aiutino a dare un senso alla novità, per controllarla. Da dove vengono queste persone, queste donne e questi uomini, quali sono le loro origini? Come spiega l’autrice, proprio “la discussione delle origini è un osservatorio privilegiato del rapporto dei viaggiatori con le proprie conoscenze pregresse e della maniera in cui queste vengono fatte interagire con l’esperienza diretta”.
Si scomodano così i racconti dell’antichità, del passato, della mitologia, della Bibbia, della storia. Il naturalista Bernard Romans, nella sua Concise Natural History of East and West Florida (1775), giunge alla conclusione che nel mondo devono esserci state “diverse creazioni, tanti Adami ed Eve quante specie vi sono nel globo”. A volte questi sforzi portarono a fraintendimenti e forzature. Un esempio è offerto dalla History of the American Indians (1775) di James Adair, che nello sforzo di inserire la storia dei nativi nella narrazione biblica applica alle società amerindie “concetti come synedrion […], magus, archi-magus e priest, per indicare figure di capi religiosi”.
Nel libro di Giulia Iannuzzi vi è però anche altro. L’opera è una raffinata operazione storiografica che si annoda, riprende, e rivisita diversi filoni di studi. Nella decostruzione fatta dall’autrice dei processi di creazione di spazi geografici da parte degli europei come ecosistemi politici coerenti e funzionali si ritrovano i temi di Ricardo Padrón sull’organizzazione del mondo imperiale ispanico tra Oceano Pacifico e America Latina. L’opera, inoltre, si riallaccia in più di un modo alla fioritura di studi degli ultimi decenni sulla Compagnia di Gesù, il cui contributo alla costruzione culturale (almeno in prospettiva eurocentrica) degli spazi extra-europei svolse un ruolo importantissimo. Tuttavia, non si può fare a meno di notare nelle pagine di Iannuzzi l’eco di una tradizione storiografica cólta, da Federico Chabod a Itala Vivan, fino ai loro più o meno diretti epigoni vicini a noi, da John Elliott a Serge Gruzinski. Questioni come la costruzione di un’identità europea tormentano, e continueranno a farlo, le notti degli storici. Causa: la natura così fluida ed eterogenea del concetto di Europa, in cui aspetti culturali, storici e geografici si mischiano senza che sia possibile capire dove l’uno inizia e l’altro termina; che ha da sempre bisogno di un “altro”, fin dai tempi di Erodoto, per trovare una sua cifra specifica. E ditemi se questo non è un problema che ci riguarda oggi.
Un altro argomento di grande importanza nel dibattito pubblico odierno affrontato in Geografie del tempo riguarda sia il ruolo femminile, sia la presenza in un dato contesto storico di individui di genere “fluido”, non binario, ossia non rientranti nel sistema eteronormativo della cultura europea del tempo. Senza derive ideologiche, l’autrice offre esempi importanti sulla presenza di questi gruppi all’interno del mondo americano, e di come venivano percepiti dai viaggiatori del Vecchio Continente. Della condizione femminile, Iannuzzi mette in evidenza gli aspetti più tragici, in quanto, come “nel caso della tratta schiavile, oggetto involontario, forma di capitale economico, sociale o politico, moneta di scambio per la negoziazione e il consolidamento di rapporti tra coloro che ne vendono, comprano o mediano il commercio”. Tuttavia, l’autrice racconta anche l’importante “coinvolgimento delle donne nello sviluppo dei network del fur trade nordamericano tra diciassettesimo e diciottesimo secolo”, esteso fino alle latitudini settentrionali dell’Alaska.
Il tutto, ovviamente, tramite la mediazione della narrazione europea. L’essenza del libro di Iannuzzi è proprio questa: come attribuire senso ai luoghi e alle persone, integrandole con le nostre coordinate culturali? Per fare ciò, la “selvaggia” e “primitiva” complessità americana ha fornito un laboratorio ineguagliato. Per concludere, il libro di Giulia Iannuzzi offre al lettore contemporaneo un complesso e colorato mosaico di concetti, esperienze, culture, luoghi; ricostruisce un’eredità culturale di fondamentale importanza per comprendere molti aspetti del nostro modo di pensare l’alterità, ma anche noi stessi e i luoghi in cui viviamo. L’autrice fonde con sapienza temi storiografici di ultimo grido con problemi più datati, meritevoli di un’attenta rivisitazione. Il risultato è un viaggio affascinante – non solo nelle Geografie del tempo – bensì anche indietro nel tempo e lontano nello spazio.
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