“Una madre” di Colum McCann e Diane Foley è una ricerca della verità attraverso la vita e il sacrificio di una madre e di suo figlio

In tempi come il nostro, in cui la moda letteraria italiana insegue battaglie di retroguardia contro vecchi mulini a vento evocati dal conformismo, e magari proprio appellandosi a un Pasolini che con ogni probabilità si sta rivoltando nella tomba, fa bene alla nostra intelligenza scoprire scrittori che con la realtà – la realtà quella dura, la realtà che non fa sconti – si impegnano fino in fondo, in un corpo a corpo in cui la scrittura narrativa, per cercare la verità racchiusa in ogni singola vita, cede spazio al documento, alla storia, perfino alla cronaca, e tutto questo senza togliere nulla – anzi aggiungendo qualcosa – a un libro ben scritto. È questo il caso dello scrittore irlandese Colum McCann.



Nato e cresciuto a Dublino e formatosi come giornalista tra gli echi degli opposti terrorismi che incendiavano la vicina Belfast, McCann (1965) si è imposto all’attenzione del pubblico italiano grazie al suo Apeirogon (2020), romanzo caleidoscopico nel quale, nell’intreccio di visioni narrative, interviste, racconti tra storia passata e presente, si dipana la matassa dell’intrigo israelo-palestinese, dell’infinito rincorrersi di torti e ragioni che quasi meccanicamente da tre quarti di secolo spingono due popoli ad odiarsi.



Al centro di tutto questo, McCann ci aveva raccontato la stupefacente storia dell’amicizia nata tra Rami e Bassam, un israeliano e un palestinese che dopo l’uccisione delle loro figlie hanno scelto la faticosa via della riconciliazione piuttosto che la più facile e diffusa strada della vendetta.

Anche grazie a questo libro Rami e Bassam hanno potuto divulgare nel mondo – qualcuno certamente ricorderà la loro testimonianza, insieme a McCann, allo scorso Meeting di Rimini – la speranza di ponti di dialogo tra mondi resi oggi irriducibilmente nemici dalle scelte criminali delle rispettive leadership.



Il medesimo tema, di un ascolto dell’altro e di un percorso di com-passione, è riproposto in modo ancor più radicale nel 2023 in American mother, scritto a due mani da McCann e Diane Foley, pubblicato da Feltrinelli nel 2024 nella traduzione di Marinella Magrì sotto il titolo Una madre.

La madre è appunto Diane Foley, che racconta in prima persona la storia del figlio James (Jim), coraggioso reporter di guerra per vocazione di verità, che venne platealmente decapitato davanti a una videocamera dall’ISIS nell’agosto del 2014, dopo un lungo periodo di detenzione in Siria durante il quale la sua famiglia non riuscì ad avere pressoché alcuna notizia.

Colum e Diane si conobbero in un collegamento su Zoom per la promozione di Apeirogon, e da lì nacque un’intensa amicizia. Colum dedicò alla storia di Diane e di Jim un anno intero della sua vita, accompagnandola al processo che si celebrava negli USA contro uno dei carnefici di Jim e nei colloqui che lei volle avere con il reo confesso dopo la sua condanna definitiva.

Il detenuto era Alexanda Kotey, un londinese convertito all’islam e partito come foreign fighter insieme ad altri tre britannici che avrebbero poi detenuto e torturato Jim per ben 21 mesi. I prigionieri li chiamavano i Beatles, per il loro marcato accento e il gergo londinese: questa caratteristica consentì in seguito di individuarli, sebbene dinanzi ai prigionieri si fossero sempre presentati a volto coperto.

L’inconfondibile stile narrativo di McCann, decisamente giornalistico, di un giornalismo alto, profondamente suggestivo ed empatico, ci accompagna dentro all’inferno attraversato in quasi due anni da Diane Foley e, grazie a lei, dentro all’angoscia dei parenti e dagli amici di molti altri ostaggi di quegli anni.

Insieme, per riflesso, il libro ci pone dinanzi ai tanti risvolti di quel fenomeno primordiale e selvaggio che è la presa di ostaggi: un fatto che “scava un buco nel cuore”, come dirà Diane. D’altra parte, come scrivono McCann e Diane Foley, “il dibattito sugli ostaggi non è solo questione di bianco e nero. Occupa svariate e complesse zone di grigio. E prima di vincere – o perdere – in una controversia, si deve conoscere la logica del proprio oppositore” (p. 165).

Proprio questa sfida, questa penetrazione in una logica radicalmente “altra” dalla nostra, è quella che Diane, accompagnata con grande delicatezza da Colum, ha accettato di raccogliere e di condurre per tutto il tempo che le è stato dato per incontrare il carnefice di suo figlio.

Dopo la morte di Jim, la tenacia di Diane Foley nel voler custodire la memoria del figlio, del suo amore per la giustizia e per la verità che lo aveva spinto fino ai limiti più rischiosi, la porterà a fondare la James W. Foley Legacy Foundation, associazione di parenti degli ostaggi.

Con essa Diane diede inizio a una dura battaglia affinché il governo federale si facesse carico della liberazione dei giornalisti, del personale sanitario e dei volontari sequestrati in zone di guerra. Queste categorie di operatori avevano il duplice torto di essere, agli occhi dei sequestratori, soltanto degli americani e, agli occhi delle autorità statunitensi, soltanto dei civili.

Il governo americano, infatti, almeno in quel momento storico in cui l’ISIS imperversava durante l’amministrazione Obama, si preoccupava di cercare la salvezza soltanto dei propri militari, vietando invece ogni possibile contatto tra le famiglie e i sequestratori nel timore che fosse pagato un riscatto.

Grazie alle ricerche di Diane, siamo così messi al corrente che, nella faccenda degli ostaggi, ve ne erano alcuni – spagnoli, francesi e italiani, come nel caso del cooperante Federico Motka – che potevano sperare di ricevere un segreto sostegno da parte delle intelligence dei rispettivi governi, mentre altri – i civili inglesi e quelli americani – al di là delle solidarietà formali erano di fatto abbandonati a se stessi.

Fu questo il destino di Jim Foley e di altri suoi compagni di sventura. Un destino che Diane poté ricostruire proprio attraverso il racconto di alcuni compagni di prigionia di Jim, che invece furono riscattati perché europei.

Nelle parole di Diane troviamo tanto dolore, tanta angoscia, tanta nostalgia per la vita di Jim, per quello che avrebbe potuto essere e non sarebbe mai più stato, troviamo tanti dubbi, anche il sospetto di aver commesso degli errori, come quello di aver tardato nella sua battaglia per la liberazione fidandosi troppo dei consigli ambigui degli agenti dell’FBI e dei dipartimenti governativi; ma troviamo anche tanta fede in Dio, tanta preghiera, tanta solidarietà di amici e conoscenti e infine, in modo sorprendente, la scoperta che lei, Diane, non riesce a odiare l’assassino e il torturatore di suo figlio. “Se li odio, hanno vinto. Dobbiamo pregare per avere il coraggio di essere l’opposto”, dirà lei in un’intervista rilasciata nel 2022 su queste pagine.

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