La filosofia della storia di Giambattista Vico si rivela ancora oggi preziosissima per capire il presente. Chesterton ci aiuta a comprenderla
Marcello Veneziani ha scritto un piccolo-grande libro (Vico dei miracoli. Vita oscura e tormentata del più grande pensatore italiano, Rizzoli 2023) su Giambattista Vico e, rivolgendosi prevalentemente ai non addetti ai lavori, ha cercato di restituire in modo leggibile, con una lingua che si spinge fino a qualche coloritura dialettale, non solo il pensiero ma la vita stessa del Napoletano, dall’infanzia agli studi e al suo lavoro di precettore presso una famiglia nobiliare – i Rocca – a Vatolla, alla conquista di una cattedra di retorica, al matrimonio, alla composizione del suo capolavoro – La scienza nuova – riscritto per tre volte e infine alla morte e ai funerali, occasione di conflitto all’interno dell’università.
Un lavoro felice, che tenta di familiarizzarci con una figura purtroppo monumentalizzata. Il Vico di Veneziani invece appare un po’ simile a Kant, del quale si diceva che, vedendolo passeggiare, i concittadini regolassero l’orologio per la sua puntualità. Così Vico va avanti e indietro per Spaccanapoli, transita per i vicoli, si reca all’università per le sue lezioni di retorica.
Ma chi è Vico oggi? Nell’atmosfera di rifiuto dei maestri e in generale del passato, il filosofo dei “corsi” e “ricorsi” è un monumento che potrebbe essere rovesciato come esponente della cultura patriarcale, che riepiloga fin dall’inizio. Ma visto che la stessa sorte potrebbe toccare a tanti maestri, chiediamoci un po’ bruscamente se e a che cosa “serve” oggi un pensatore del genere.
Sappiamo bene che parlando di filosofia e di arte questo tipo di domanda viene elusa o rifiutata più o meno elegantemente: la filosofia non “serve” come l’arte, che non serve e per questo è importante, come diceva un grande uomo di teatro come Kantor. A che serve dunque un pensiero come quello di Vico?
Esiste una risposta indiscutibile a questa domanda: ci servirebbe a pensare il tratto più immediatamente evidente del nostro tempo: la barbarie ritornata e che non può essere nominata, trattandosi di una parola scorretta.
Vico ci serve a identificare l’aspetto più specifico del nostro tempo, perché i “corsi e ricorsi” storici non sono solo la formula più ricordata da parte dei non addetti ai lavori, ma anche l’asse del suo pensiero, che è un pensiero della storia – la “scienza nuova” – e del suo “funzionamento”.
La storia degli uomini e delle loro nazioni non corrisponde alla storia raccontata dalla “boria” (presunzione) dei dotti e dalle stesse comunità umane che nobilitano le loro origini, ma ripete la storia della nascita e formazione dell’uomo, che prima è bambino e infante, poi adolescente, infine adulto.
Le civiltà ripetono questa storia cominciando da origini infime di uomini tutti senso e passioni, elevandosi attraverso le repubbliche aristocratiche degli eroi, per concludersi con lo stadio degli uomini razionali. Qui la poesia precede la prosa perché i primi uomini non sono in grado di elaborare concetti ma solo immagini, l’eloquenza si afferma nella fase eroica, la riflessione si dispiega con la filosofia nelle fasi di compimento di una civiltà.
Ma che succede quando una civiltà ha fatto il suo corso? La sua crisi corrisponde a una estenuazione delle facoltà razionali che mina dall’interno il corso storico, aprendolo al “ricorso”, cioè al ritorno della barbarie rimossa. Vico distingue due tipi di barbarie: quella “esterna”, dominata da sensi e passioni violente, e quella “interna”, minata da una riflessione il cui eccesso finisce col rompere il legame sociale – la barbarie della riflessione.
Abbiamo un testo perfetto che ci consente di comprendere grazie a un poeta-teologo come funziona il rapporto tra corso storico e ricorso della barbarie. Si tratta de La ballata del cavallo bianco (Raffaelli, 2013) di G.K. Chesterton, che racconta poeticamente la storia di Alfredo il Grande e della sua incredibile vittoria sui Danesi, che fondò l’Inghilterra.
Alfredo e i suoi non sono guerrieri di professione ma agricoltori, allevatori, amici che si uniscono per difendersi dagli invasori e trovano ascolto da parte della Vergine Maria. Questa compagnia getta il cuore oltre l’ostacolo e riesce contro ogni speranza a vincere i barbari nella battaglia di Ethandun.
L’Inghilterra così può nascere e crescere e re Alfredo può godere del frutto delle sue fatiche. Ma nonostante l’età, Alfredo deve tornare in battaglia perché i Danesi sono tornati. Egli parte e ha una visione del ritorno futuro dei pagani, dei barbari, solo che essi non torneranno armati di asce su navi da guerra: l’inchiostro sarà la loro arma e loro saranno puliti e educati come chierici, arriveranno carichi di fogli e di penne, ma la loro azione sarà anche peggiore di quella dei Danesi, che almeno erano uomini.
Il risultato sarà l’infrangersi del rapporto dell’uomo col suo Signore, libero di amarlo o odiarlo, e tutto, non solo l’umano ma anche il cosmo, si degraderà irresistibilmente. Qui si ferma la visione di re Alfredo che non sa se il rimedio alla tristezza pagana verrà dalla spada o da altro.
Qui si ferma anche il breve tentativo di riassumere Vico confrontandolo con un poeta che racconta perfettamente il rapporto del “corso” storico che porta Alfredo a battere i Danesi, col “ricorso” della barbarie della riflessione – i chierici armati, oggi, di tablet e cellulari.
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