27 ottobre 2013. Dieci anni fa moriva a New York Lou Reed (1942-2013), uno dei più geniali esponenti della realtà rock del ventesimo secolo, per circa cinquant’anni protagonista assoluto della scena artistica internazionale.
Non sono un critico musicale capace di muoversi dentro tutte le pieghe della vita artistica e privata dei cantanti e gruppi musicali più in voga. Voglio solo esporre in che modo Lou Reed mi abbia fatto compagnia, con la sua musica più che con i suoi testi, in questi ultimi 50 anni, ora che sono arrivato quasi alla soglia dei 70.
Il mio primo incontro con Lou Reed non fu attraverso gli album dei Velvet Underground, in auge per gli addetti ai lavori nella seconda metà degli anni sessanta, ma accadde circa cinque anni dopo il loro scioglimento, nel periodo in cui preparavo gli esami universitari ascoltando alla radio le trasmissioni dedicate alla musica rock. Studiavo finché passava un brano che mi piaceva, allora spostavo l’attenzione dalle formule di statistica alla musica e schiacciavo il tasto Rec del registratore a cassette, per aggiungere un nuovo pezzo a una improbabile compilation zeppa di canzoni troncate sul più bello dai conduttori radiofonici e inquinate dai loro commenti.
Il brano che mi fece rizzare sulla sedia fu Rock ‘n’ roll tratto dall’album live Rock ‘n’ Roll Animal, registrato nel concerto tenuto a New York il 21 dicembre 1973, e pubblicato da RCA nel febbraio 1974, dove un androgino Reed veniva accompagnato dalle incredibili chitarre di Steve Hunter e Dick Wagner. Allora non conoscevo né i Velvet, né i precedenti album studio di Lou Reed come solista, in particolare Transformer e Berlin. Fui folgorato dagli arrangiamenti hard rock di questo suo primo album dal vivo. Ascoltavo solo musica inglese e confesso che allora, come ora d’altronde, non capivo gran che dei testi, che nella produzione di Reed sono fondamentali, ma qualche frase intera riuscivo a coglierla.
Come non stupirsi dunque di fronte alla storia di questa bambina di cinque anni che una bella mattina viene improvvisamente salvata dalla noia (addirittura “her life was saved by rock and roll”) ascoltando una stazione radio di NYC che trasmette musica rock! Anche a me bastava la musica quantomeno per cambiare umore, non potendo facilmente accedere ai testi. Ho un solo rammarico: non si trova un filmato di questo concerto, da cui furono tratti due album live, in mezzo a tutto il campionario universale di YouTube! Ho anche chiesto informazioni presso la Public Library di New York, dove è stato conferito tutto l’archivio di Lou Reed, ma senza esito.
In seguito, sempre nel 1974, acquistai l’album Sally can’t dance, contenente la bellissima storia di Billy, amico di Reed morto in Vietnam, dove nel parallelo tra le due loro vite Lou affronta la tematica dell’amicizia e della morte, che saranno ricorrenti in tutta la sua opera. E poi a ritroso andai a conoscere i Velvet Underground, scoprendo che Rock ‘n’ Roll è una canzone del gruppo. Comprai tutti gli album dei Velvet e mi feci una compilation di tutte le versioni di questa canzone registrate qui è là, con il gruppo e da solista, nonché delle relative cover. Da allora ho comperato tutti gli album di Lou Reed, compreso l’inascoltabile esperimento di Metal Machine Music.
La versione di Rock ‘n’ Roll che preferisco, oltre a quella citata, è quella del concerto dal vivo al teatro Olympia di Parigi durante la reunion dei Velvet nel 1993, e della quale esiste anche il filmato. Di essa mi è rimasto impresso il bellissimo assolo di Sterling Morrison alla chitarra: una musica trascinante suonata dal secondo chitarrista dei Velvet quasi immobile in piedi, madido di sudore per lo sforzo e la concentrazione esercitata sulle corde della sua chitarra.
La figura di Lou Reed è per me associata a due concerti tenuti a Milano. Il primo fu quello del 13 febbraio 1975 al Palalido, interrotto dai cosiddetti “situazionisti”, dopo l’introduzione di Angelo Branduardi che faceva da spalla con il suo violino. Questi situazionisti erano estremisti della sinistra extraparlamentare che, con il volto coperto da fazzoletti, si aggiravano in gruppo sugli spalti alla ricerca del presunto fascista da malmenare. Dopo alcuni episodi del genere, per fortuna accaduti dalla parte opposta a quella dove mi trovavo, essi salutarono l’ingresso sul palco di Lou Reed e della sua band con il lancio di oggetti contundenti. Dopo poche note la band fu costretta a ritirarsi; fece un nuovo tentativo dopo un po’ di tempo, ma con la medesima accoglienza. A quel punto, capito l’andazzo, e tenuto conto che ero pendolare, me ne andai frustrato verso la stazione per non rischiare di perdere l’ultimo treno. Altri aspettarono due ore, inutilmente.
Il secondo concerto fu quello dell’aprile 1996 al teatro Smeraldo per il tour di lancio dell’album Set the Twilight Reeling. Ero in compagnia dell’amico Augusto Piergallini, grande fan di Bob Dylan ed anche, a suo tempo (era il 1977), conduttore del programma radiofonico Rai serale Pop Off. A proposito di Dylan va ricordata, in occasione del concerto al Madison Square Garden per i 30 anni di carriera di quest’ultimo, la bellissima performance di Lou Reed nel brano Foot of Pride.
Ritornando al concerto dello Smeraldo ricordo due cose: una musica sparata a volume altissimo e una canzone dell’album che io attendevo e che non fu eseguita, The Finish Line, scritta in memoria del compagno dei Velvet Sterling Morrison, deceduto l’anno prima. Credo non sia stata messa in scaletta per l’uso preponderante del pianoforte. Anche questo è un brano introspettivo dove Reed si confronta con il traguardo finale della vita (the finish line), verso cui tutti siamo indirizzati.
Reed non è stato solo il cantore di vite disperate e borderline nella New York della seconda metà del novecento, ma si è fatto conoscere anche per una sensibilità alle tematiche esistenziali che costituiscono il perno della vita, ovvero la ricerca della felicità, della giustizia e di un senso della realtà, viste spesso on gli occhiali di un crudo cinismo che porta a disperare di tutto, dalle convenzioni alle istituzioni, alla politica e alla religione, come cantato ad esempio in Busload of Faith (“You can depend on the worst always happening” e “You can’t depend on the Sacrament, no Father, no Holy Ghost”) o in canzoni arrabbiate come Good Evening Mr. Waldheim dove Reed dichiara non esserci punto di intesa (common ground) con personaggi come Waldheim, il Papa e Jesse Jackson. All’altro estremo Reed si pone davanti a uno specchio per chiedersi “chi sono io” nel brano Who Am I, che fa parte di uno dei suoi ultimi album, The Raven:
Sometimes I wonder who am I
The world seeming to pass me by
A younger man now getting old
I have to wonder what the rest of life will hold
(…)
Sometimes I wonder who am I
Who made the trees, who made the sky
Who made the storms, who made heartbreak?
I wonder how much life I can take.
Comunque questa ricerca di una risposta positiva agli interrogativi ultimi e di qualcuno capace di rispondere accompagna la vita di Lou Reed attraverso le sue canzoni sin dalla giovinezza, come nel brano Jesus dei Velvet Underground:
Jesus
Help me find my proper place
Jesus
Help me find my proper place
Help me in my weakness
‘Cos I’m falling out of grace
Jesus, Jesus
Per finire questo personale tributo a Lou Reed e alla sua sensibilità, non posso omettere l’omaggio che egli, insieme a John Cale, fece ad Andy Warhol dedicandogli l’album Songs for Drella (1990). Nel brano Hello, it’s me Reed, rivolgendosi a Warhol, esprime il proprio rincrescimento, confidando che questi lo possa ascoltare, per non poter porre rimedio ai suoi atteggiamenti sbagliati del passato, occasioni perse che cercano un riscatto nell’omaggio tardivo lasciato con le canzoni dell’album:
I wish someway, somehow, you like this little show
I know this is late in coming but it’s the only way I know
Hello, it’s me
Goodnight, Andy.
Un modo per ridire all’amico il desiderio di essere uno specchio in cui lui potesse infine riflettersi, come nella famosa espressione composta ai tempi della loro frequentazione nella Factory e del loro primo LP, prodotto dallo stesso Warhol: “I’ll be your mirror, reflect what you are”.
In fondo, dopo tutti questi anni, penso di poter dire che possiamo trovare l’autentico Lou Reed già tutto nelle canzoni dei Velvet Underground, dalla disperazione alla denuncia, alla speranza.
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