Leggiamo ormai quotidianamente sui giornali di ragazzi sempre più spesso protagonisti di violenze di gruppo, pestaggi, atti di vandalismo, prostituzione minorile e cose simili. Inevitabilmente ci si chiede come sia possibile e la domanda: “Di chi sono figli?” trova spesso una risposta rassicurante e semplicistica: “sono figli di famiglie emarginate,d i genitori disagiati, di adulti irresponsabili”.
Purtroppo la realtà ci apre uno scenario molto più complesso e variegato che, se osservato da vicino, rivela verità meno rassicuranti dei luoghi comuni e ci impone di prendere una posizione: quei giovani sono molto spesso figli di famiglie “normali”, di genitori socialmente impegnati, di adulti affermati.
E la famiglia e gli adulti di oggi si trovano ad affrontare il delicato tema dell’educazione, beninteso non solo nozionistica ma come sfida evolutiva e crescita morale e psicologica, in una desolata solitudine mascherata dal continuo dibattito svolto nell’agorà della globalizzazione, la rete e i media.
Si dimentica invece, di come l’educazione sia un’impresa evolutiva congiunta, un impegno che coinvolge oltre alla famiglia tutti gli altri attori sociali: la scuola, la politica, il mondo del lavoro, lo sport, la Chiesa; perché l’identità degli adolescenti si costruisce attraverso una sintesi tra le varie relazioni sperimentate con gli adulti che essi incontrano sulla loro strada.
L’adolescente in termini semantici è “colui che sta diventando adulto”; adulto e adolescente sono dunque due concetti collegati, il primo costituisce il punto di partenza e l’altro la meta. In realtà in un bambino di cinque anni vi è già molto dell’adulto del futuro: un individuo unico e irripetibile; ma questo bambino si forma un’immagine del mondo e della realtà osservando gli individui chi gli stanno intorno.
Gli adolescenti per crescere hanno bisogno di un giudizio dell’adulto, sono loro stessi a chiederlo perché nel giudizio vi è un valore e il valore serve ai ragazzi a costruire la propria identità; i ragazzi hanno bisogno di un rispecchiamento che permetta loro di vedersi e riconoscersi.
Tutti noi adulti siamo portatori sani di educazione ma siamo anche persone inserite in una società ed espressione della civiltà in cui viviamo. Quella di oggi viene definita civiltà ipermoderna; è la società globalizzata nella quale non vi sono più limiti spazio-temporali certi, è la “società del tutto e subito intorno a te e solo per te” grazie alle nuove tecnologie, una società in cui si è perso il senso di ciò che è bene e ciò che è male.
Bauman a tal proposito ha parlato di epoca dei legami liquidi: un’epoca caratterizzata dalla liquidità delle relazioni e dei valori e cioè dalla dissoluzione della funzione orientativa del Padre che aveva fino ad oggi fornito il senso del limite.
I giovani di oggi sono figli dell’ipermodernità ma hanno perso la direzione, qualcuno che indichi loro la strada. Per Padre non si intende esclusivamente la figura del genitore ma in senso più lato si vuole intendere la funzione paterna che in una società è quella di giudice, di guida, di punto di riferimento e che si esprime nella famiglia, nella scuola e in altri contesti del vivere.
Ed è così che non sapendo a chi guardare noi tutti ci sentiamo un po’spaesati; ma gli adolescenti sono ancora di più alla deriva, sempre più soli in mezzo a tanta gente, sempre più vuoti anche se con tanti amici su facebook e sempre più individualisti e meno legati alla comunità, ad una famiglia e ad un mondo valoriale.
Il tempo in questa epoca appare dilatato e potenzialmente infinito ma vuoto di aspettative e quindi risulta più semplice vivere il momento per evitare la noia. Spesso è proprio la noia il sentimento che riempie le vite dei nostri giovani, perché nella noia nulla accade e ci si trova a pensare, a desiderare, a sognare e quindi a rimandare la soddisfazione del momento, a riempire il vuoto di progetti ma questo in un’epoca come la nostra risulta difficile ed anche molto fuori moda. Succede così che per scacciare la noia si facciano gesti che “rompano, spacchino, spezzino” qualcosa per potersi sentire vivi e importanti, per distinguersi, per far parlare di sé.
Il progettare la propria vita in modo sano implica la condivisione con l’Altro, con l’amico, con il fratello, con il genitore, con l’insegnante, e quindi vuol dire relazionarsi, incontrare gli altri. Nell’incontro con l’Altro i giovani vogliono essere visti per capire chi sono.
Un best seller di questi tempi, “La solitudine dei numeri primi”, illustra il rischio della nostra civiltà: quello che i giovani evitino di incontrarsi e di progettare la loro esistenza per paura, quella paura che nasce dal non essere stati visti e non solo guardati dagli adulti.