Diciamolo. La pervasività e la sfacciataggine della corruzione politica ci lasciano ormai più smarriti che scandalizzati. Ci lasciano sconcertati, senza parole. Sicché di parole – autorevoli, convinte e impegnative – sentiamo anzitutto il bisogno. Proprio al contrario di quanto di solito si dice: abbiamo bisogno di parole e idee prima ancora che di fatti. Riflessioni solide, pacate, incoraggianti cui seguano le azioni, allora finalmente non superficiali, demagogiche o inconcludenti.
Ecco perché le parole scritte da mons. Bressan qualche giorno fa sono così importanti. Il loro peso morale è tutto e immediatamente politico. In una diocesi come quella di Ambrogio, che, costernata, si scopre preda di un sistema di corruzione criminale, esse valgono – dirò tra un attimo perché – più delle leggi anti-corruzione. Proviamo dunque a riflettere ancora, a discutere ulteriormente alcune idee e alcune parole.
Morale Non è affatto un partita individuale. La morale genera e fonda le istituzioni. Queste non sono altro che la proiezione delle norme morali che sentiamo e condividiamo. E dire questo non è moralismo. Perché quelle norme e quei codici possono, ahimè, essere buoni o cattivi e sarebbero comunque i nostri. Il moralismo è altra cosa. E’ la traduzione dei precetti in ricette di pronto consumo polemico; né sensate né caritatevoli né disinteressate. Il moralismo non combatte la corruzione, se ne alimenta, ne vive, perciò, a conti fatti, la riproduce.
Partiti Averne. Forti, veri, elaboratori di visioni politiche, canalizzatori di consenso, decisori responsabili. Non è il partito il fomite della corruzione. Può diventarlo quando il meccanismo del ricambio si inceppa e il partito finisce per essere patrimonio di un’oligarchia. Può diventarlo quando rimane orfano di progetti. La corruzione si insinua dove la tensione ideale è calata, quando i partiti sono babele di pseudo-programmi e crocevia di negoziatori di voti. E se questo ci ricorda qualcosa non è un caso. Sì, il ciclo della corruzione nel nostro Paese corre parallelo alla disgregazione dei partiti politici.
Professionismo politico La politica professionale non è un male. I professionisti della politica possono essere donne e uomini messi alla prova del governo più volte. Perciò sono sottoposti ad uno scrutinio pubblico prolungato (se quello scrutinio ci prendiamo il disturbo di esercitarlo). La prospettiva di una carriera politica può costituire incentivo a far bene, a rifiutare la seducente svendita dell’interesse collettivo in nome di un tornaconto privato. Max Weber spiegò che la ricerca del potere e del successo è la cifra del vero politico. Di recente, parlando in un luogo tragico della politica del XX secolo, il Reichstag di Berlino, Benedetto XVI ha spiegato che deve concedersi al politico la ricerca del successo; il vero discrimine essendo che quel successo sia “subordinato al criterio della giustizia”.
Amministrazione pubblica Tutti i nodi vengono al pettine. Vi è stata troppa disattenzione verso l’amministrazione pubblica. “Pubblico è brutto”: a partire dagli anni ’90, la parola d’ordine è servita a un privatismo a senso unico, a fare da alibi per un riformismo troppo timido, è servita a un tiro a segno indiscriminato e ingeneroso contro i dipendenti pubblici. Così, eccoci qui: vai a persuadere i giovani brillanti che i concorsi pubblici non sono tutti truccati né sono un mediocre ripiego; vai a motivare (per di più senza quattrini) quelli che negli uffici ci sono già. Tutti gli studi dicono che tra i presìdi principali contro la corruzione nel pubblico impiego vi è l’orgoglio professionale. Orgoglio? Come potrebbe esserne restato?
Leggi Senza giustizia “cosa sono i regni se non brigantaggio in grande stile?”. E’ di nuovo il Papa a ricordarci queste parole di Agostino. E ad aggiungere: “Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico”. Ma vi è poi il paradosso dello “stato di diritto”: più leggi uguale a meno giustizia. Certo, van bene le leggi sulla corruzione, ma quella che gli studiosi chiamano “infrastruttura morale” di un sistema istituzionale, non è fatta dalle leggi. L’idea di impedire le malefatte con normative puntigliose e dettagliate è velleitaria. In realtà, è anche dannosa. Perché le norme complicate impediscono la (tanto invocata) trasparenza. Provate a leggere gli atti di un concorso pubblico e di una procedura di appalto; o un qualsiasi regolamento da cui desumere se un certo comportamento sia lecito o no. Di fronte alla loro tortuosità la “vigilanza” dei cittadini diventa impervia. Non solo. La numerosità e complicazione delle norme apre invece vere e proprie autostrade agli specialisti delle soluzioni più ‘ardite’– e magari ai grand commis delle mafie.
Parole e idee; discutibili, ben inteso. Ma anche discutere è ciò che ci serve per far diga contro la corruzione, per fare risalire la tensione morale, la partecipazione e la fiducia. Già, la fiducia; il cosiddetto “capitale sociale”. Più poveri ne siamo, più ci mancano i mezzi per tornare ad investire in fiducia. La riserva aurea italiana – pochi lo ricordano – è la terza al mondo. Eppure il tesoro di cui più avremmo bisogno, il “capitale sociale” del nostro Paese, dobbiamo ancora ricostituirlo, giorno dopo giorno.