La notizia non ha avuto molta eco sui media. Eppure nella discussione sulla necessità di rivedere la spesa dello Stato ha il suo peso: la Corte dei Conti ha stimato il costo delle società partecipate in 26 miliardi nel solo 2013. In particolare il Procuratore generale Salvatore Nottola, nella sua requisitoria orale sul Rendiconto 2013 dello Stato, nella parte relativa alla pubblica amministrazione – «la cui efficienza è un fattore fondamentale per l’economia» – ha dichiarato espressamente che «risalta il fenomeno delle società partecipate, totalmente o in parte, dal capitale pubblico». Perché «per il loro peso finanziario e per la dimensione economica gli enti partecipati hanno un forte impatto sui conti pubblici, sui quali si ripercuotono i risultati della gestione, quando i costi non gravano sulla collettività, attraverso i meccanismi tariffari (il movimento finanziario indotto dalle società partecipate dallo Stato, costituito dai pagamenti a qualsiasi titolo erogati dai Ministeri nei loro confronti ammonta a 30,55 miliardi nel 2011, 26,11 miliardi nel 2012 e 25,93 nel 2013; il “peso” delle società strumentali sul bilancio dei Ministeri è stato di 785,9 milioni nel 2011, 844,61 milioni nel 2012 e 574,91 milioni nel 2013; quanto agli enti partecipati dagli enti locali, un terzo è in perdita)».
E per quanto la nascita di nuovi enti partecipati da istituzioni locali, spesso si tratta di Fondazioni di partecipazione, possa essere considerato positivamente come tentativo di non gestire più direttamente alcuni comparti e funzioni prima “in pancia” all’ente pubblico, «non si possono escludere scelte indotte da logiche assistenzialistiche o dall’intento di eludere i vincoli di finanza pubblica, specialmente riferiti all’attività contrattuale ed alle assunzioni di personale: tali enti spesso ricorrono, e la forma privatistica glielo consente, a reperire risorse lavorative all’esterno della struttura pubblica ricorrendo ad assunzioni di personale a tempo determinato ed al conferimento di incarichi di prestazioni professionali e di consulenza esterna. Inoltre, la carenza dei controlli favorisce episodi di cattiva gestione, non di rado di illeciti anche penali, i cui effetti dannosi si riflettono sul bilancio degli enti conferenti».
Se vogliamo scendere dal generale al particolare, e soffermarci sul “caso” milanese, possiamo dire insieme ai giudici contabili che anche il sistema di aziende partecipate da Palazzo Marino ha il suo forte impatto sui conti pubblici con aggravio di costi sulla collettività. Secondo alcune stime degli uffici competenti, infatti, la somma delle principali partecipazioni comunali raggiunge il valore di oltre 2 miliardi e 300 milioni. Si tratta di quasi il totale della spesa corrente annua dell’amministrazione, sostenuta nel corso dell’ultimo anno da 1 miliardo e 300 milioni di tasse. Se si sommano infatti le valutazioni di A2A (737 milioni), Atm (altri 700 milioni), Sea (710), Milano Serravalle (134), Milano Sport (24), Farmacie comunali (16), Milano Ristorazione (10), si superano abbondantemente i 2 miliardi e 330 milioni. Anche perché questa cifra non tiene conto dei dati contabili delle altre partecipazioni comunali (AMAT, Metropolitana milanese spa, Mir, So.ge.Mi, Arexpo, Expo 2015, Navigli lombardi, Amiacque, Capholding spa).
Tenuto conto dell’alto livello di pressione fiscale che quest’anno raggiungerà il 44%, ma soprattutto considerando che molti dei servizi svolti dalle aziende partecipate possono essere tranquillamente affidati al mercato, vale ancora la pena difendere gelosamente i confini dell’attuale assetto di intervento del pubblico? A chi giova? Non è, forse, il caso di investire le risorse pubbliche nel sostegno alla domanda degli utenti anziché pianificare la risposta?