Adesso c’è anche la data: 22 ottobre. Quel giorno, dieci milioni di lombardi e cinque milioni di veneti andranno a votare per l’autonomia della propria regione. Il consenso intorno all’iniziativa referendaria sta montando. Si allarga sempre di più, alimentando qualche polemica soprattutto all’interno di quelle forze politiche — Pd e Patto civico — che il 17 febbraio 2015, quando la maggioranza che sostiene Roberto Maroni (Lega, Lista Maroni, Forza Italia, Lombardia Popolare, Fratelli d’Italia e Pensionati), con il supporto dei grillini, approvò la proposta di referendum nel Consiglio regionale lombardo, votarono contro. E si trovano adesso con le armi spuntate.
Alle origini della sua storia, la Repubblica ha posto le autonomie speciali — Sicilia, Valle d’Aosta, Trentino e Sudtirolo, Sardegna e, in un secondo tempo, Friuli Venezia Giulia — ai confini del federalismo rispetto allo Stato centrale. Nei fatti, alla radice della specialità vi è un rapporto di tipo contrattuale e pattizio fra queste regioni e lo Stato centrale. Un rapporto fondato sul principio del contratto-scambio, teorizzato da Gianfranco Miglio: l’adesione al processo di costruzione della Repubblica è avvenuta alla sola condizione che lo Stato riconoscesse la loro oggettiva e comprovata diversità — etnica, culturale, storica, linguistica — attraverso la specialità. Gli estremi del rapporto contrattuale e pattizio che, allo stesso modo, la Lombardia — regione a statuto ordinario — può instaurare con lo Stato centrale sono riassumibili in una semplice equazione: risorse economiche in cambio di sovranità, vale a dire residuo fiscale a fronte di una maggiore autonomia politica e amministrativa.
La Lombardia è davvero una regione “speciale”. Ogni anno versa a Roma 56 miliardi di euro, a tanto ammonta infatti il residuo fiscale. Non solo, ma con la sua capacità economica e produttiva copre circa un quarto del Pil del Paese. Una nota agenzia internazionale di rating, Moody’s, ha detto che la Lombardia è assai più virtuosa dello Stato di Roma. E il Censis ha rivelato che se tutte le regioni adottassero i criteri di spesa della Lombardia si risparmierebbero 74 miliardi di euro, che scendono a 23 se si guarda anche alla qualità dei servizi lombardi. La spesa pubblica pro capite per ogni abitante lombardo è di gran lunga inferiore a quella delle altre regioni e rappresenta circa il 34 per cento del Pil lombardo, che è molto vicino a quello della Svezia. L’evasione fiscale lombarda è nettamente al di sotto della media europea. E il Financial Times ha scritto che la Lombardia è al vertice europeo anche per quanto attiene agli investimenti esteri perché è davvero molto attrattiva.
Il referendum lombardo non è un’iniziativa demagogica e propagandistica della maggioranza regionale, come ritiene il Pd. È davvero necessario, anche per una ragione tecnica. Con la riforma del 2001 è stato introdotto il principio del regionalismo differenziato. Alle regioni a statuto ordinario con i conti in ordine la Costituzione offre infatti l’opportunità di chiedere al governo centrale dei margini di maggiore autonomia politica e amministrativa. Il principio è molto giusto. E tuttavia — in oltre quindici anni — non è mai stato concretamente realizzato. Il regionalismo differenziato è un istituto giuridico-costituzionale assolutamente valido, ma rimasto sulla carta, malgrado alcune regioni abbiano provato a percorrere la strada della trattativa con il governo: la Lombardia, ma anche il Veneto, l’Emilia Romagna e la Toscana. Non è vero che non ci abbia mai provato nessuno. Le trattative naufragarono — e questo sarebbe il destino se si aprisse immediatamente il tavolo negoziale con il governo, come vorrebbe il Pd lombardo — perché la partita dell’autonomia si svolse in un ambito tutto istituzionale e tutto politico. Fu condotta a porte chiuse, senza il coinvolgimento dell’opinione pubblica. Per questa ragione, ricorrere alla consultazione referendaria — come premessa della trattativa con il governo, allo scopo di legittimarla e renderla più incisiva — è fondamentale. Il quesito è finalizzato a sondare l’orientamento del popolo lombardo per sapere se è favorevole a un’azione istituzionale forte verso il governo, nel solco della costituzionalità. Serve a rafforzare il ruolo del presidente Maroni nel negoziato con il governo, per conquistare l’autonomia e ridurre il residuo fiscale.